ACAB (2012), il lato sporco e oscuro della polizia secondo Stefano Sollima

Intorno al film

Buon sangue non mente, verrebbe da dire parlando di Stefano Sollima. Figlio d’arte del grande Sergio (autore di capolavori come Revolver, Città violenta, La resa dei conti, Faccia a faccia), si è imposto nel mondo del cinema realizzando la serie televisiva Romanzo criminale (2008-2010), basata sul romanzo omonimo di Giancarlo De Cataldo e superiore, per certi versi, anche al precedente e omonimo film di Michele Placido (2005). Con Romanzo criminale, Stefano Sollima dimostra una grande padronanza del mestiere, confezionando un prodotto di alto livello e di forte impatto emotivo: dopo le prime sette serie de La Piovra (1984-1995), è uno dei pochi film televisivi a possedere un carattere marcatamente cinematografico. In seguito a questo successo divenuto un cult, Sollima si impone anche nelle sale cinematografiche con ACAB (2012). Tratto dall’omonimo libro di Carlo Bonino (giornalista e scrittore italiano), ACAB è un film di denuncia estremamente coraggioso, un poliziesco molto sui generis che ha il merito di trattare un tema scottante e sottaciuto, cioè il lavoro e la vita dei cosiddetti “celerini”, i poliziotti del reparto antisommossa.

ACAB

La vicenda

La vicenda ruota attorno a tre celerini di Roma. I loro soprannomi sono Cobra (Pierfrancesco Favino), Negro (Filippo Nigro) e Mazinga (Marco Giallini). La loro missione: agenti del reparto antisommossa, in prima linea nelle manifestazioni, negli stadi, nelle piazze, nello sgombero delle occupazioni abusive. Un lavoro violento e pericoloso, che li rende bastardi fino all’osso e li spinge a compiere anche vendette personali. Una vita privata disastrosa: Negro ha divorziato dalla moglie e rischia di non poter più vedere la loro bambina; Mazinga ha un rapporto conflittuale col figlio, ribelle e neofascista; Cobra deve affrontare un processo che lo vede accusato di aggressione nei confronti di un tifoso. Sullo sfondo, alcuni tragici eventi reali con cui i tre si confrontano: il G8 di Genova, la morte dell’ispettore Filippo Raciti, l’uccisione del tifoso laziale Gabriele Sandri.

Narrazione e stile

Il titolo del film, ACAB, è un acronimo che sta per All Cops Are Bastards (“tutti i poliziotti sono bastardi”): un termine divenuto di uso sempre più comune nella società (non solo italiana) dopo i ripetuti abusi di potere da parte della polizia a cui si è assistito negli ultimi anni. Pur senza raggiungere la crudeltà (purtroppo reale) di Diaz (2012) di Daniele Vicari, anche ACAB in certi momenti è un pugno nello stomaco: la regia (perfetta) di Stefano Sollima si concentra più sulle vicende personali dei poliziotti, ma attraverso questi personaggi trova ampio spazio anche la rappresentazione degli abusi compiuti (vedasi lo sgombero delle case e il pestaggio dei tifosi napoletani sul treno) e dei pericoli eversivi di un corpo di polizia quasi “a parte”. L’ex celerino Carletto (espulso dal corpo per la sua eccessiva violenza) dice infatti, ricordando la loro partecipazione al G8 di Genova: “se i politici non si mettevano paura e non ci fottevano con la storia della Diaz, fidati che questo Paese sarebbe un’altra cosa”. Una frase veramente forte, che suggerisce i pericoli a cui la democrazia italiana va ancora oggi incontro. Nel corso del film, si innesta inoltre un cortocircuito ideologico che mostra alcune contraddizioni della realtà sociale italiana: l’ideologia neofascista dei celerini li fa scontrare con un gruppo anch’esso di estrema destra (fra cui il giovane figlio di Mazinga), che odia gli stranieri quanto loro e vorrebbe cambiare l’Italia attraverso gli stessi metodi (le spedizioni punitive).

Grande merito, dunque, al coraggio del regista nel mettere in scena questioni così scomode e delicate. Stefano Sollima ha ereditato dal padre non solo la capacità di realizzare scene d’azione e di mantenere alto il ritmo per tutta la durata del film, ma anche l’utilizzo della pellicola come veicolo per trasmettere in maniera forte questioni sociali e politiche. In Romanzo criminale era il “potere” a farla da padrone: non solo il potere dei piccoli delinquenti e dei grandi boss, ma anche il potere occulto dello Stato e dei servizi segreti. In ACAB, l’attenzione si focalizza sul lato più sporco e oscuro della polizia: non più gli eroici agenti de La scorta o Palermo Milano solo andata, ma celerini bastardi e fascistoidi che approfittano della loro posizione per compiere abusi di potere e sfogare una rabbia repressa, con pericoli eversivi che toccano ancora il tema del “potere”. Sullo sfondo, un ritratto sociale a tinte fosche, fra bande criminali, immigrati, politici dalla morale discutibile, operai disperati e ultrà. Come in Romanzo criminale, grande attenzione anche alla psicologia dei personaggi, ciascuno alle prese con i propri problemi, e alle dinamiche di gruppo (poco importa che siano delinquenti o poliziotti), esplorate sempre in maniera certosina. Il reparto celere viene descritto infatti quasi come una “banda”, con gerarchie da rispettare, riti d’iniziazione (vedasi la recluta imprigionata nel furgone con un lacrimogeno) e un forte senso di fratellanza: i celerini sono come “fratelli” (uno da solo non conta nulla, è il “gruppo” a fare la forza, come spiega e illustra in un quadro Cobra), la violenza è una regola di vita, e chi tradisce la fiducia è un “infame” da isolare. Non sembrano molto diversi, dunque, dai componenti della banda descritta in Romanzo criminale. La coscienza emerge raramente nei personaggi (solo quando sono alle prese con le loro famiglie), e alla fine il più positivo sembra essere la recluta Adriano Costantini, che denuncia al magistrato i suoi compagni per la spedizione punitiva contro i neofascisti. Disprezzato da tutti per questo gesto, risponde finalmente alla domanda che gli viene posta più volte lungo il film, cioè come mai è entrato in polizia: “volevo un lavoro onesto, Cobra, perché la guardia è un lavoro onesto, ecco perché sto in polizia”.

ACAB può contare su interpretazioni sanguigne e intense, e i caratteri dei personaggi spaziano dall’odio ai sentimenti familiari e alle preoccupazioni esistenziali. Non a caso, il cast può vantare la presenza di ottimi interpreti. Pierfrancesco Favino, sempre grandioso, è uno dei migliori attori del cinema italiano di oggi (anche grazie alla sua voce calda e profonda), in grado di spaziare fra generi molto diversi, dalla commedia al noir (memorabile la sua interpretazione del “Libanese” in Romanzo criminale di Michele Placido) e sbarcato anche a Hollywood nel bellissimo Angeli e demoni di Ron Howard. La stessa versatilità caratterizza Marco Giallini, “romano” per eccellenza del nostro cinema: truce delinquente nel noir L’odore della notte di Claudio Caligari e nella serie Romanzo criminale dello stesso Sollima (dove interpreta il “Terribile”), coraggioso poliziotto nell’action televisivo Operazione Odissea di Claudio Fragasso, protagonista di commedie divertenti come il recente Posti in piedi in Paradiso di Carlo Verdone (insieme ancora a Favino). Meno conosciuti, ma altrettanto efficaci, sono Filippo Nigro (Negro), Domenico Diele (Adriano Costantini) e Andrea Sartoretti: celebre per essere stato il “Bufalo” in Romanzo criminale di Sollima, lo troviamo qui nel ruolo dell’ex poliziotto Carletto.

Le sequenze d’azione non mancano, e sono ben dirette con realismo e coraggio. La più lunga e spettacolare è sicuramente quella ambientata all’esterno dello stadio Olimpico di Roma, dopo una partita immaginaria (ma fino a un certo punto) tra Roma e Napoli, con descrizione minuziosa degli scontri fra polizia e ultrà. Una situazione simile la troviamo anche dopo, in uno stadio non precisato (forse Catania, visto che si parla della morte dell’ispettore Raciti). Crude e avvincenti sono pure le scene degli scontri iniziali fra i celerini e gli operai e la spedizione punitiva del “gruppo” contro i colpevoli dell’accoltellamento di Mazinga.

La colonna sonora

La colonna sonora è realizzata all’insegna dell’adrenalina pura. Sui titoli di testa, mentre i celerini preparano le armi in attesa di una missione, partono le note martellanti di Seven Nation Army dei White Stripes, la cui melodia è divenuta in seguito un coro da stadio: e probabilmente la scelta non è casuale, visto che i protagonisti del film saranno impegnati spesso in scontri contro gli ultrà. Il resto della colonna sonora è affidata ai Mokadelic (gruppo musicale romano autore anche di vari brani per film), con le loro consuete musiche “dure” da rock psichedelico.

Davide Comotti

Bergamasco, classe 1985, dimostra interesse per il cinema fin da piccolo. Nel 2004, si iscrive al corso di laurea in Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Bergamo (laurea che conseguirà nel 2008): durante gli studi universitari, ha modo di approfondire la sua passione tramite esami di storia, critica e tecniche del cinema e laboratori di critica e regia cinematografica.

Diventa cultore sia del cinema d’autore (Antonioni, Visconti, Damiani, Herzog), sia soprattutto del cinema di genere italiano (Fulci, Corbucci, Di Leo, Lenzi, Sollima, solo per citare i principali) e del cinema indipendente di Roger A. Fratter.

Appassionato e studioso di film horror, thriller, polizieschi e western (soprattutto italiani), si occupa inoltre dell’analisi di film rari e di problemi legati alla tradizione e alle differenti versioni di tali film.

Nel 2010, ha collaborato alla nona edizione del Festival Internazionale del Cinema d’Arte di Bergamo.

Esordisce nella scrittura su “La Rivista Eterea” (larivistaeterea.wordpress.com). Attualmente scrive su ciaocinema.it, lascatoladelleidee.it, mondospettacolo.com. In precedenza, ha curato la rubrica cinematografica della rivista Bergamo Up e del sito di Bergamo Magazine. Ha redatto inoltre alcuni articoli per i siti sognihorror.com e nocturno.it.

Ha scritto due libri: Un regista amico dei filmakers. Il cinema e le donne di Roger A. Fratter (edizioni Il Foglio Letterario) e, insieme a Vittorio Salerno, Professione regista e scrittore (edizioni BookSprint).

Contatto: davidecomotti85@gmail.com

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