Approda nelle sale Bolgia totale (2015) di Matteo Scifoni

Intorno al film

Nel cinema contemporaneo italiano (e non solo) capita spesso di scoprire i film più freschi e sorprendenti lontano dai grandi festival e dalle luci della ribalta, film nati e distribuiti invece in circuiti underground, indipendenti o quasi, ma che con grandi sacrifici e spirito di gruppo riescono a trovare anche una distribuzione in sala e/o in DVD. È il caso di questo interessante Bolgia totale (Italia, 2015), opera prima di Matteo Scifoni, un crudo noir/poliziesco che cerca di rinverdire i fasti di un genere fra i più popolari negli anni Settanta e ancora oggi di culto, reinterpretandolo nella società moderna. Uscito in sala il 3 settembre, è una produzione indipendente che può godere però di un budget superiore (pur se contenuto) rispetto ad altri film realizzati fuori dal circuito “ufficiale” – come dimostra in primis il ricco cast. L’esordiente Scifoni sa fare di necessità virtù, sfruttando al meglio le risorse a disposizione per dirigere un noir che va oltre l’omaggio al genere per creare qualcosa di nuovo.

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La vicenda

Nella Roma dei giorni nostri, fra piccola e grande criminalità, si muove l’anziano ispettore Quinto Cruciani (Giorgio Colangeli), a pochi mesi dalla pensione. Un tempo punta di diamante della squadra mobile, adesso è stato degradato al lavoro in ufficio ed è diventato un relitto umano: male in arnese, consumatore di alcool e droghe, pieno di debiti e disilluso dal suo lavoro. Chiamato in servizio dall’ispettore capo Bonanza (Gianmarco Tognazzi) nel corso di un’operazione antidroga, si lascia sfuggire uno dei due spacciatori arrestati, Michele Loi (Domenico Diele). Il superiore gli concede tre giorni di tempo per ritrovare il fuggitivo, prima di sporgere denuncia sull’accaduto al vice-questore. Il vecchio poliziotto, senza rinunciare al vizio della droga, intraprende la difficile ricerca giungendo sino a Felix (Ivan Franek), un crudele boss polacco con cui Loi è in affari. Tutte queste vite allo sbando sono destinate a incrociarsi in modo drammatico.

Narrazione e stile

Nel circuito indipendente (o semi-indipendente) italiano sono nati in questi anni numerosi e interessanti film di genere noir/poliziesco, spesso omaggianti i classici degli anni Settanta con città roventi, commissari di ferro e feroci delinquenti, altre volte invece più intimisti: fra i primi, ricordiamo Roma criminale di Gianluca Petrazzi, buona operazione vintage e spettacolare (pur con qualche difetto), il mediometraggio Calibro 70 di Alessandro Rota, la tesissima crime-story Piano 17 dei Manetti Bros., mentre più anomali sono La banda del brasiliano del collettivo John Snellinberg e Dentro la città di Andrea Costantini, solo per citarne alcuni. E tutto questo rimanendo nell’ambito del low-budget, dunque senza considerare le grosse produzioni di registi come Fragasso, Soavi, Stefano Sollima, a testimonianza di come il poliziesco sia tutt’oggi, pur tra mille difficoltà, uno dei generi più amati e popolari. Proprio mentre al Festival di Venezia (e presto in sala) viene presentato l’ultimo dramma/noir del compianto Claudio Caligari, Non essere cattivo (2015), approda in sala anche questo interessante Bolgia totale, opera prima degna di assoluta attenzione e che possiede quelle atmosfere cupe e disperate tipiche proprio di Caligari.

Bolgia totale, inteso proprio a livello nominale, è un titolo anomalo per un poliziesco, contenente in nuce la peculiarità del film e l’intenzione di andare oltre il semplice omaggio: non si rifà ai classici Roma violenta o Napoli spara! (come fa ad esempio l’altrettanto ottimo, ma differente, Roma criminale), spostando l’attenzione su un versante “dantesco” e sociologico – la spiegazione viene infatti dalle parole di un delinquente che definisce la società moderna una “bolgia totale”, come se l’inferno si fosse trasferito nel nostro mondo. Un pessimismo cosmico magnificamente esplicato nel film, dove si manifesta dall’inizio alla fine, in ogni inquadratura, rivelando derivazioni non solo dal poliziesco italiano ma anche dal noir francese di ieri e di oggi, quello più cupo e intimista, con personaggi borderline che si muovono ai confini tra legalità e illegalità, vite perdute in cui le distanze fra “buoni” e “cattivi” si fanno sempre più sottili. Scompare dunque la distinzione manichea fra il poliziotto integerrimo e il delinquente da catturare, perché le vite dell’ispettore Cruciani e dello spacciatore Loi sono molto più simili e vicine di quanto ci si possa aspettare – come testimonia soprattutto lo struggente confronto finale, ma anche il primo incontro e la telefonata tra i due. Dimentichiamo dunque i poliziotti super-eroici alla Maurizio Merli, che sparano, picchiano e uccidono in nome della giustizia: nella società di oggi, di cui Bolgia totale è un realistico spaccato ritratto in modo più efficace di tante opere cosiddette “impegnate”, non c’è più posto per gli eroi; dunque, il nostro film non vuole essere tanto spettacolare e fracassone, quanto raccontare storie e personaggi vicini alla realtà, ciascuno alla deriva e con i propri problemi da affrontare, siano essi poliziotti o criminali. E non è tanto un discorso di budget, quanto di intenti: anche il suddetto Roma criminale di Petrazzi, ad esempio, è una produzione semi-indipendente, ma non mancano sparatorie e inseguimenti (seppure con tutti i limiti del caso). Scifoni vuole in parte riprodurre le atmosfere “ciniche infami e violente” dei seventies, in particolare nelle ambientazioni e nella violenza, ma soprattutto concentrarsi sulla rappresentazione dei personaggi, nei quali psiche e corpo vanno più che mai di pari passo.

L’ambiente descritto in Bolgia totale è un autentico inferno a cielo aperto, paragonabile per certi versi alle crude narrazioni del grande Caligari (Amore tossico e L’odore della notte, prima di Non essere cattivo): una Roma coatta e borgatara, fatta di spacciatori, tossicodipendenti e criminali di ogni genere, dai piccoli delinquenti come il protagonista Loi, disperato e psicotico, ai grossi trafficanti come il polacco Felix. Le location predilette sono casermoni underground coperti di graffiti, strade di periferia, appartamenti sporchi, locali fumosi e sfasciacarrozze (ambiente immancabile nel poliziesco italiano, dagli anni Settanta a oggi), valorizzate dalla fotografia di Ferran Paredes Rubio che privilegia i toni cupi. Anche la parlata è brutale e realistica, con un frequente uso dell’accento romano e di volgarità, mai gratuite ma quasi documentaristiche come tutto l’ambiente raffigurato. Scifoni riesce a coniugare in modo brillante impegno e spettacolo: di azione vera e propria, come si è detto, ce n’è pochissima (solo una breve sparatoria verso la fine), eppure il ritmo è sempre sostenuto, non ci si annoia mai, grazie anche a un cast superbo che ci regala interpretazioni sanguigne, sofferte e credibili.

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Giorgio Colangeli, apprezzato attore di cinema, teatro e televisione, è gigantesco nella controversa figura che interpreta, questo ispettore assuefatto a droghe e alcool (spesso è ripreso mentre si ubriaca o sniffa sostanze varie), tanto più impressionante vista l’età non proprio giovane (più di una volta gli viene rimproverato di drogarsi “alla sua età”). Fisicamente disfatto, grassoccio e con la barba incolta (a cui si aggiungono ferite varie procuratesi durante la vicenda), vive una vita trasandata quanto il suo aspetto, tra una figlia che vede pochissimo e un’amante messa incinta (forse le sue uniche due speranze di salvezza) e un lavoro che non fa più per lui. Non viene mai chiarito il motivo del suo allontanamento dalla squadra mobile, ma sicuramente ha combinato qualcosa di poco chiaro: oberato dai debiti, vive a contatto con la piccola criminalità da cui si rifornisce di droga, e il suo capo – un severo e altrettanto convincente Tognazzi – non è da meno, visto che scopriamo ricevere tangenti dalla malavita romana. Dunque, la polizia è tutt’altro che eroica nel nostro film, e Bolgia totale richiama in tal senso vari e illustri predecessori: il primo a mostrare la corruzione della polizia in Italia fu il maestro Fernando Di Leo, con Il boss e soprattutto Il poliziotto è marcio, ma il personaggio di Quinto Cruciani ricorda di più i protagonisti di altre importanti pellicole quali Copkiller di Roberto Faenza e Il cattivo tenente di Abel Ferrara (in un certo senso “figlio” del film di Faenza), senza dimenticare l’inarrivabile Michele Placido nel capolavoro Arrivederci amore, ciao di Michele Soavi (forse il poliziotto più marcio e bastardo visto sullo schermo). Cruciani però non è un bastardo, anzi di base è onesto, ma la vita e la società non gli permettono più di credere nella giustizia. La violenza non è gratuita, ma una conseguenza necessaria di questa amara realtà, e contribuisce a rendere Bolgia totale un solido noir dal sapore d’altri tempi. Capiamo subito di essere in un film che sa osare quando, dopo pochi minuti dall’inizio, Domenico Diele assale un egiziano premendogli la faccia contro una piastra rovente e poi prendendolo a mazzate con una padella; la violenza colpisce in prima persona anche il vecchio commissario, sia quando la subisce (due loschi figuri di cui è debitore entrano in casa e gli rompono una mano) sia quando la pratica (una scena politically uncorrect vecchio stile, con il poliziotto che tira un pugno allo stomaco di uno spacciatore sulla sedia a rotelle); fino alla crudele resa dei conti in casa di Franek, con l’esecuzione a sangue freddo del medesimo, Diele a cui vengono mozzate le dita con una mannaia e una breve ma cruenta sparatoria.

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Chi più chi meno, tutti i personaggi che vediamo rappresentano una parte di un’umanità allo sbando. Massimo Loi è interpretato da un sempre efficace Domenico Diele, fra le migliori promesse del nostro cinema: finora lo avevamo visto come poliziotto in ACAB di Sollima e nella serie-tv 1992 di Gagliardi, e con un incredibile trasformismo fisico ed espressivo si cala nei panni di un delinquente emarginato e psicopatico, soggetto a crisi di nervi ma in grado di mostrare ogni tanto un lato più umano: controverso il suo rapporto con una ragazza albanese muta (Xhilda Lapardhaja), con la quale sogna di fuggire lontano e che riveste un ruolo sempre più importante nella vicenda, e molto profondo il confronto col vecchio ispettore – due caratteri che si rivelano molto simili, divisi solo dalla legge ma accomunati da un rispetto reciproco che nasce dalla loro natura di perdenti, ciascuno a suo modo. Curiosa anche la figura immaginaria di un cowboy che Diele intravede come figura fantasmatica parlante, sullo sfondo di una musichetta western (da notare il ripetuto omaggio a quest’altro genere italiano molto amato, da cui tornano varie citazioni del leoniano Il buono, il brutto, il cattivo): vagamente grottesca ma per niente caricaturale, rappresenta la coscienza di Loi, la sua altra metà che lo spinge ad agire. Non c’è un unico tipo di delinquente, e Scifoni lo dimostra mettendo in scena il più crudele Felix, un boss polacco interpretato dal sempre inquietante Ivan Franek (Tulpa, Ritual) con il suo inconfondibile accento est-europeo, uno spietato narcotrafficante che conserva in frigorifero il piede di un nemico ucciso e si circonda di altrettanto viscidi sgherri. A lato, una serie di piccoli delinquenti, figure minori ma rappresentative della borgata romana e della sua micro-criminalità, quali il “Tricheco” (il ragazzo arrestato), il “Rospo” (il ragazzo sulla sedia a rotelle) – da notare i soprannomi squisitamente romaneschi – lo sfasciacarrozze e altri personaggi trasandati espressione di un disagio sociale più vasto. Come si diceva, Scifoni non vuole fare un film citazionista (valore aggiunto al film: ormai citare è diventata una moda abusata), e tutto ciò che vediamo profuma sì di poliziesco vecchio stile ma reinterpretato con gli occhi di oggi; in qualche circostanza il regista si concede qualche omaggio nostalgico e ben riuscito: il vero nome del “Tricheco” scopriamo essere Giovanni Pazzafini, nome che non può lasciare indifferenti gli amanti del buon vecchio cinema italiano, di cui Giovanni “Nello” Pazzafini era un inconfondibile caratterista; oppure il redde rationem fra Diele e Franek sembra omaggiare, con le dovute distanze, Adorf e Celi ne La mala ordina di Di Leo.

La colonna sonora

La colonna sonora di Bolgia totale è affidata al compositore e attore Stefano Fresi, inconfondibile per via della sua stazza imponente, che ricordiamo di recente nella black-comedy Smetto quando voglio (2014) di Sydney Sibilia e che compare anche qui in una scena nel ruolo di Geremia, il proprietario dello sfasciacarrozze. Come la messa in scena, anche la componente musicale vuole stare lontana dal puro omaggio ai seventies, quindi evita i ritmi sfrenati e “invadenti” (alla Micalizzi, per intenderci). L’impasto sonoro fa da sottofondo, si insinua di tanto in tanto, lasciando però lo spazio maggiore ai rumori intradiegetici (ciò che accade nella finzione scenica). Prevalgono i motivi cupi (in sintonia con l’atmosfera del film), non c’è una melodia orecchiabile ma pezzi ossessivi e martellanti che accompagnano le scene di maggiore tensione; li affiancano un brano malinconico durante il triste finale e le musichette western che sentiamo quando appare il cowboy immaginario.

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