Blade Runner (1982) di Ridley Scott è una pietra miliare nel cinema di fantascienza d’autore, divenuto un autentico cult per i cinefili. A tal punto che il 6 e il 7 maggio di due anni tornò in sala nella sua versione definitiva e restaurata, a testimonianza di come questo kolossal continui a riscuotere successo di pubblico e critica: è un’autentica lezione di cinema che ancora oggi ha molto da dire – questo vuol dire essere un “classico”. In attesa del sequel Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve (Sicario, Arrival), che uscirà nelle sale americane e italiane in autunno, rivediamo questo capolavoro. Alla pari di altre opere come 2001: Odissea nello spazio, Dune, Solaris (solo per citare alcuni fra i più famosi), Blade Runner si eleva al di sopra del puro “genere” di fantascienza per diventare un vero e proprio film d’autore, una riflessione sull’uomo e la società: un’opera decisamente avanti sui tempi che continua ad appassionare e insegnare, oltre a essere un ritratto magistrale dell’immaginario anni Ottanta.
Liberamente ispirato al romanzo di Philip K. Dick (specialista della narrazione fantascientifica) Il cacciatore di androidi (1968), Blade Runner si svolge a Los Angeles nel 2019, in un futuro distopico: la tecnologia ha permesso la creazione di “replicanti”, cioè creature artificiali identiche agli umani, dotati di una forza superiore ma con pochi anni di vita e utilizzati come schiavi nelle colonie spaziali. Sei replicanti, coscienti del loro status, si sono ribellati fuggendo dalle colonie extra-mondo e ora cercano di infiltrarsi fra gli umani. L’ex-poliziotto Rick Deckard (Harrison Ford), già in servizio nel corpo speciale Blade Runner, viene richiamato per la nuova missione: individuare ed eliminare le creature sfuggite al controllo. Un replicante è stato già ucciso, e ora ne rimangono cinque: il capo Roy Batty (Rutger Hauer), Leon e tre donne, Rachel, Pris e Zhora. Deckard inizia le indagini partendo da Rachel, una ragazza a cui sono stati impiantati ricordi umani in modo da non renderla cosciente della propria condizione: innamoratasi dell’agente, lo aiuta nella difficile caccia agli altri quattro.
La forza di Blade Runner è innanzitutto visiva, prima ancora che narrativa: grazie a un incredibile utilizzo di location, fotografia ed effetti speciali, ci troviamo immersi in un mondo apocalittico di gigantesca potenza estetica, un grandioso affresco cyberpunk, dark e futuristico. Fin dalla prima inquadratura, quando la metropoli viene inquadrata dall’alto con le luci e i bagliori delle fiamme, la regia ci fa capire il viaggio allucinogeno che faremo. L’ambientazione, lungo tutto il film, è una Los Angeles mai così spettrale, inquinata e piovosa, squisitamente dark, multietnica, con la fotografia che predilige i toni scuri, squarciati periodicamente da luci psichedeliche: la composizione delle inquadrature è da antologia, fra grattacieli futuristici ripresi dall’alto o dal basso, strade affollate e navicelle volanti, che formano un complesso universo visivo. Uno stile marcatamente anni Ottanta, underground e cyberpunk, ma al contempo unico, accompagnato dalle evocative musiche dei Vangelis che alternano melodie d’atmosfera con pezzi più vigorosi.
Ridley Scott è uno specialista in kolossal di vario genere (suo è anche l’altrettanto celebre horror fantascientifico Alien), e la sua regia è potente e in grado di fondere perfettamente narrazione ed estetica, inscindibili l’una dall’altra. Il mondo fantascientifico descritto è, come si diceva, distopico (una società immaginaria indesiderabile e spaventosa), e su tale universo il film innesta una struttura quasi da noir hard-boiled: il poliziotto, i nemici, la donna di cui si innamora, più una serie di personaggi borderline che dipingono un’umanità allo sfascio. Se da un lato ci avviciniamo nello stile e nell’ambientazione ad altri classici dei primi anni Ottanta come Terminator e 1997 – Fuga da New York, Blade Runner se ne distanzia perché, pur concedendo spazio allo spettacolo attraverso varie scene di azione e violenza, si concentra maggiormente su altri aspetti: la messa in scena dei personaggi, gli interrogativi mai banali sull’essere umano, gli squarci onirici come il sogno dell’unicorno.
Oltre alla rappresentazione di un mondo apocalittico e distopico, particolarmente interessanti sono i confronti fra Harrison Ford e i replicanti, in primis il grandissimo Rutger Hauer – con un personaggio talmente potente da rubare talvolta la scena al protagonista – ma anche l’affascinante Rachel (Sean Young), la mascolina Zhora (Joanna Cassidy) e la punk Pris (Daryl Hannah); un cast ricchissimo, impreziosito da ottimi caratteristi come Edward James Olmos, M. Emmet Walsh e Brion James. Una menzione particolare va al celeberrimo, spettacolare e commovente finale, con Hauer che pronuncia la frase “Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi”, con i criptici ed evocativi “bastioni di Orione” e “porte di Tannhäuser”; prima di morire, una lacrima solca il suo viso – unico bagliore di umanità in un essere non-umano.
Attraverso dialoghi intensi e pregni di significati, Scott affronta con la fantascienza una serie di temi niente affatto banali: il potere e il pericolo della tecnologia, le multinazionali che governano il mondo, il sovraffollamento, l’uomo-macchina, la coscienza della diversità, il labile confine tra il bene e il male – nel film non ci sono infatti personaggi in assoluto positivi o negativi. Varie tematiche hanno fatto scuola nella narrazione fantascientifica successiva: vedasi i replicanti, i ricordi impiantati artificialmente che torneranno in Atto di forza e Matrix, ma anche lo stile dark/punk e post-apocalittico che ritroviamo in film come Terminator (e relativi sequel), Hardware, Brazil, Il quinto elemento.