Roberto Saviano, Matteo Garrone, Stefano Sollima: uno scrittore e due registi uniti da un nome, Gomorra, che risuona in modo potentissimo nella cultura popolare. Dal romanzo al film fino alla spettacolare serie televisiva diretta da Sollima e altri registi, divenuta un cult per il nuovo cinema italiano e internazionale. Ma se andiamo a indagare nel passato – nel 1986 per la precisione – scopriamo che già era esistita una sorta di “Gomorra prima di Gomorra”, ed è la miniserie in tre episodi Naso di cane di Pasquale Squitieri, tratta dall’omonimo romanzo del napoletano Attilio Veraldi (1982). Certo, parliamo di un’epoca completamente diversa, quando le serie-tv come le intendiamo noi oggi non esistevano ancora, e di un’estetica per forza di cose differente rispetto a oggi: ma come narrazione e temi trattati (e in parte pure come stile), l’opera di Squitieri anticipa in modo incredibile Gomorra – La serie. Napoli, la camorra, le famiglie rivali, i killer, le sparatorie, esistenze allo sbando, sono tutti elementi che fanno di Naso di cane un’autentica Gomorra ante litteram.
Su Squitieri si è già detto molto in un articolo precedente. Negli anni Settanta aveva diretto un’ideale trilogia sulla camorra con i film Camorra, I guappi e L’ambizioso. Negli anni Ottanta, le fiction televisive in varie puntate stavano prendendo sempre più piede, evolvendosi dai classici sceneggiati dei decenni precedenti e orientandosi più specificamente sul versante noir/poliziesco. L’esempio più eclatante è La piovra, divenuta col tempo un autentico fenomeno di costume, ma anche vari film erano montati in due versioni, una per il cinema e una più lunga divisa in puntate per la televisione (un esempio è Pizza Connection di Damiano Damiani). È in tale contesto che Squitieri dirige la serie Naso di cane: tre puntate di circa 80 minuti ciascuna, per un totale di 4 ore. Per i grandi registi come Squitieri, Damiani e oggi Sollima, non è un problema passare dal cinema alla televisione, e infatti l’opera in oggetto conserva tutte le caratteristiche basilari del suo autore: piglio spettacolare alternato a un realismo quasi verista, ritmo elevato, violenza, sangue, sequenze roboanti con sparatorie, costruzione minuziosa della storia e dei personaggi, durezza senza compromessi, oltre all’immancabile ralenti che nello Squitieri anni Ottanta raggiungeva i suoi massimi livelli (pensiamo al grandioso Il pentito); da notare anche la ricca produzione e il cast notevole.
“Naso di cane” è il soprannome dato al protagonista attorno a cui ruotano le molteplici storie narrate, Ciro Mele (Nigel Court), per via di una malformazione al naso. Il ragazzo vive col fratello Armandino in una condizione di indigenza e quando uccide Merdillo, spacciatore e protettore della prostituta Rosa (Nancy Brilli), inizia la sua discesa nella spirale del crimine. Nel frattempo, a Napoli è in corso una cruenta guerra fra due clan rivali, gli Ammirata, guidati da Achille (Yorgo Voyagis), e i fratelli Palestra, che si contendono vari territori del crimine come il racket delle pompe funebri, le scommesse clandestine, la droga. Il commissario Corrado Apicella (Luca De Filippo), amico d’infanzia di Ciro Mele, cerca di combattere la camorra ma ha le mani legate, ed è legato sentimentalmente a Laura (Claudia Cardinale), vedova di un poliziotto ucciso dalla malavita. Naso di cane, divenuto ormai un assassino, viene assunto come sicario da Ammirata, che gli commissiona le esecuzioni verso il clan rivale: la guerra tra bande divampa sempre più feroce, non lasciando scampo a nessuno. Sgominati i rivali, gli Ammirata hanno il controllo della città, ma il commissario riuscirà a incastrarlo.
Come in ogni trasposizione cinematografica di un romanzo, anche Naso di cane subisce dei rimaneggiamenti nella sceneggiatura, opera dello stesso Squitieri, ma al contempo riesce a rimanervi fedele nell’essenza, grazie alla collaborazione di Attilio Veraldi insieme a Lino Iannuzzi. Anzi, possiamo dire che nessuno come Pasquale Squitieri – anch’egli partenopeo – sarebbe riuscito a cogliere nel profondo lo spirito del romanzo e a trasporlo sullo schermo in modo così robusto e intriso di “napoletanità”. Naso di cane riassume un po’ tutta la sua filmografia, bilanciando e coniugando l’aspetto più spettacolare del noir/poliziesco con l’elemento di indagine sociologica mai banale, due aspetti che diventano inscindibili l’uno dall’altro Ne emerge il ritratto di una Napoli nerissima e senza speranza, corrosa dalla camorra e abitata da personaggi alla deriva: la criminalità è talmente radicata sia dal basso, cioè nel tessuto sociale, sia dall’alto, cioè nelle protezioni politiche, che combatterla diventa un’impresa donchisciottesca – come quella condotta in maniera stoica dal commissario Apicella, un anti-eroe che non si rassegna alla vittoria del crimine. E se da un lato la camorra è narrata con un piglio più cinematografico e poliziesco, dall’altro sono mostrate senza remore tutte le sue crudeltà: ricordiamo le numerose esecuzioni a sangue freddo, la vita e la violenza di strada, la prostituzione e lo spaccio della droga anche presso i giovanissimi – straziante la scena del ragazzino che muore in classe per un’overdose. Durissimi anche gli squarci sulla vita popolare, ai limiti dell’indigenza, come l’abitazione di Ciro e Armandino, i casermoni popolari sovraffollati, precursori delle famigerate “vele” di Scampia che vediamo in Gomorra: terra di nessuno, terra del crimine, ma anche terreno fertile su cui cresce l’erba cattiva della violenza e della malavita, mostrata quasi come una conseguenza inevitabile della povertà. Squitieri è imbattile in questo senso, e proprio questo fu uno dei motivi che lo ha reso un regista orgogliosamente scomodo: la violenza, la miseria e quant’altro in tal senso sono rese senza filtri o edulcorazioni, e mostrate in in tutta la loro durezza.
Un’altra “specialità” di Squitieri è la costruzione di personaggi che bucano lo schermo, diventando autentiche “persone” che il pubblico ama o odia, in grado di suscitare sentimenti contrastanti, e sempre fuori da ogni stereotipo. Vi contribuiscono senza dubbio i dialoghi marcatamente realisti, addirittura veristi potremmo dire, e anche la qualità del cast. Grazie alla coproduzione fra la RAI e Augusto Caminito, anche in questo caso il regista ha a disposizione un ampio budget, che oltre alla costruzione imponente delle scene consente un cast artistico e tecnico elevato. Nigel Court, attore inglese che lavorerà con Squitieri anche nell’ottima spy-story Russicum – I giorni del diavolo, incarna incredibilmente bene lo spirito napoletano del personaggio, guappo da strada che cerca di farsi strada nel crimine andando incontro a una triste sorte (un po’ come accadeva ai protagonisti della suddetta “trilogia” di Squitieri sulla camorra). Apicella ha il volto segnato e arguto di Luca De Filippo, attore teatrale figlio di Eduardo De Filippo, a cui si contrappongono i brutti ceffi del greco Yorgo Voyagis e di vari caratteristi: spiccano Salvatore Billa e Tommaso Palladino (i fratelli Palestra), volti celebri del poliziesco italiano anni Settanta, ma anche Victor Cavallo, Peter Berling, Marzio Honorato, tutti nomi magari non famosissimi ma sempre coi volti giusti nei ruoli giusti. La componente femminile è affidata a Nancy Brilli (la prostituta di cui è innamorato Ciro Mele e che innesca la sua discesa nel crimine), Pascale Pellegrin (la moglie di Achille Ammirato) e soprattutto a una sempre intensa Claudia Cardinale, qui in un ruolo particolarmente sofferto. Due interpreti d’eccezione sono poi Raymond Pellegrin, nome storico del noir/poliziesco italiano e non solo, nei panni di un boss della vecchia camorra che assiste amareggiato all’avanzare delle nuove leve, e Donald Pleasence, ossequioso e timoroso impiegato dell’ufficio di Ammirata. Una particolare attenzione è riservata ai rapporti fra i vari personaggi, in particolare fra Ciro Mele e l’ispettore Apicella, amici d’infanzia oggi divisi dalla vita.
Come tutte le opere di Squitieri, Naso di cane si conferma straordinario anche sotto l’aspetto poliziesco e spettacolare, diventando in certi momenti un vero film d’azione – in una sapiente alternanza fra i momenti più socio-psicologici con dialoghi che scavano dentro i personaggi. Il nostro non risparmia sparatorie, violenza e uccisioni a sangue freddo – componenti essenziali nel suo cinema – sapientemente dosate sulle quattro ore circa di durata. Rimangono indelebili le esecuzioni di Merdillo e del personaggio di Victor Cavallo, freddati da Ciro Mele a colpi di pistola (con il tipico ralenti di Squitieri), e ancora di più il crudelissimo omicidio in carcere di Aniello Palestra, trucidato a coltellate. La preparazione e l’esecuzione dei conflitti a fuoco sono orchestrate in maniera sempre certosina, attraverso un climax crescente di suspense che sfocia in cruente sparatorie con ralenti degne dei migliori action americani (ecco l’abilità tutta italiana di sfruttare al meglio il budget a disposizione), a base di pistole e mitra. Lo scontro armato fra le bande lungo i vicoli di Napoli, l’irruzione della polizia nel casolare dei fratelli Palestra, l’agguato a Naso di cane, fino alla resa dei conti dal sapore quasi western nel centro della città – d’altra parte, le scene d’azione di Squitieri hanno sempre un coté western nelle inquadrature e nelle tempistiche, forse un retaggio dei suoi primi film. Merito di una regia quadrata e impeccabile, oltre che del montaggio ritmato di Mauro Bonanni.
L’estetica è quella di un film destinato alle sale, visto che all’epoca (pensiamo anche a La piovra) la distanza tra cinema e tv era meno netta rispetto a oggi; oggi, proprio con serie-tv quali Gomorra, Romanzo criminale e i polizieschi di Michele Soavi, il cinema e la televisione si stanno riavvicinando. Notiamo una fotografia molto curata (Eugenio Bentivoglio), con predilezione dei toni cupi, scenografie naturali o ricostruite ma sempre raffiguranti uno scenario plumbeo e disperato; il tutto è accompagnato dalle musiche di Tullio De Piscopo, anch’egli napoletano, in grado di alternare pezzi ritmati da film d’azione con altri più malinconici, dunque rispecchianti le due “anime” del film.