Il Cammino di Santiago, la Via Francigena e, dalle nostre parti, la Via Mercatorum.
È in atto da qualche tempo, e sempre con maggiore interesse, la ricerca e la riscoperta delle antiche vie che a partire dal Medioevo e fino all’inizio dell’era moderna furono percorse da mercanti, soldati e pellegrini. Strade che faticosamente attraversavano e collegavano stati, regioni, paesi, valicando montagne e percorrendo pianure. Probabilmente allora era un’autentica avventura mettersi in viaggio; tanti gli imprevisti e i pericoli che si potevano incontrare: malattie, briganti, intemperie, morte. Non c’era possibilità di intervenire e soccorrere rapidamente lo sfortunato che fosse incappato in una di queste sventure.
Eventualità, fortunatamente, difficili da immaginare oggi nella nostra epoca della comunicazione in tempo reale, dell’interconnessione planetaria, delle tecnologie con le quali si può rintracciare ed essere rintracciati in ogni angolo, anche il più sperduto, del mondo.
Viceversa, sfortunatamente, oggi è sempre meno presente quella dimensione di solitudine, ben conosciuta agli antichi viaggiatori, che permetterebbe un contatto profondo con se stessi.
Quando nella sperdutissima e bellissima pianura della Mongolia, giungi a una solitaria gher, dove la vita si svolge in modo quasi identico da centinaia di anni ed entrando vedi in televisione, tramite antenna parabolica interconnessa con il mondo, uno dei tanti programmi del tutto simile a quelli che vedi a casa tua, capisci che un “mondo” è finito, irrimediabilmente. È giusto così, certo, io stesso pubblicando in internet questo scritto, sono interconnesso con il mondo. Capisci, però, che il viaggio sempre meno avrà il valore di scoperta del mondo fuori di sé e dentro di sé.
E chissà perché ti vengono alla mente i titoli di due bellissimi romanzi: “Il mondo è una prigione” di Guglielmo Petroni e “Fuga senza fine” di Joseph Roth. Chissà perché?! Nel primo, spogliato delle questioni post-belliche, l’ambito ristretto e chiuso com’è quello di una prigione assume valore di autenticità rispetto alla illusoria libertà che si apre al di fuori del carcere. Nel secondo, invece, lo spostamento continuo racconta dell’inquietudine alla ricerca di un luogo dove stare, finché il personaggio del romanzo capirà che l’unica scelta a lui possibile sarà quella del barbonaggio nelle vie di Parigi.
In entrambi i romanzi il risultato è il sentimento di estraneità rispetto ad un mondo che è appunto vissuto come “una prigione”.
Non si tratta di considerazioni interessanti, eventualmente, solo sul piano letterario ma lo sono per quel che mi concerne, soprattutto, su quello clinico. Ci dicono, infatti, della sofferenza che deriva dal non sentirsi parte, della solitudine del non riconoscersi nel mondo nel quale si vive. Esattamente l’opposto di quello che sperimenta l’uomo contemporaneo, il quale è talmente dentro al mondo, da esserne totalmente riempito e occupato. Se nel passato la sofferenza era data dalla solitudine, oggi è data dalla mancanza di solitudine, cioè di quella condizione, nel suo versante positivo, che permette all’uomo di ascoltarsi, di conoscersi e ritrovarsi.
I disturbi alimentari, anoressia e bulimia, così come i disturbi legati alle dipendenze, attualissima quella da gioco, mettono in evidenza lo stato patologico di questa società del “troppo pieno” e con esso la difficoltà dell’individuo a entrare in contatto e in ascolto di sé. Strategia, d’altronde necessaria, perché protegge dal sentimento di vuoto e dall’angoscia a esso associata.
Il viaggio a piedi, liberato da agganci tecnologici, ancora permette di salvaguardare questa possibilità di contatto e di conoscenza del mondo dentro di sé.
L’uomo ha bisogno di cercare, di scoprire, di interrogarsi, di non accontentarsi delle risposte che gli vengono offerte, fossero persino opportune e giuste.
È questo un viaggio inesauribile che pur non ignorando i progressi della tecnologia non sarà di essa ostaggio.
Ascolto, silenzio, meditazione… in cammino: come viandanti medievali.
Mario Tintori
Psicologo Psicoterapeuta
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