Il sangue dei vinti (2008) di Michele Soavi

Intorno al film

Michele Soavi, uno dei più grandi registi italiani contemporanei, ha abbandonato da tempo il genere horror per dedicarsi a film che uniscono impegno civile e spettacolo. Oltre ai numerosi prodotti per la televisione (Uno bianca, Ultimo) – rari esempi di film-tv dal taglio cinematografico – dirige due ottime pellicole che scavano nel torbido della Storia italiana e ne ritraggono le ferite tutt’ora aperte. Dopo aver esplorato il terrorismo con l’eccezionale noir Arrivederci amore, ciao (2006), Soavi ambienta un film nella controversa Resistenza partigiana: Il sangue dei vinti (2008), tratto dall’omonimo romanzo di Giampaolo Pansa. Pur non essendo perfetto come il precedente, Il sangue dei vinti è un’opera avvincente e controversa (come il libro, del resto), che ha innanzitutto il grande merito di far discutere. Del film esiste una doppia versione, cinematografica (117 minuti) e televisiva (circa tre ore, trasmessa in due puntate): in questa sede si parlerà della versione uscita nelle sale.

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La vicenda

Roma, inizio anni Settanta. Durante alcuni scavi, viene ritrovato uno scheletro con le mani legate. L’anziano ex commissario Francesco Dogliani (Michele Placido) va a trovare la scrittrice Elisa Foresi e con lei ripercorre le vicende che li fecero incontrare ai tempi della guerra. Roma, 1943. Il commissario Dogliani sta indagando sull’omicidio di una prostituta, madre della piccola Elisa. Convinto che il delitto sia legato a un importante gerarca fascista, prosegue caparbiamente nelle indagini rimanendo estraneo a quanto sta accadendo in Italia. Non può però rimanere indifferente quando la guerra lacera la sua famiglia: tornato a casa dei genitori, in Piemonte, scopre che i suoi fratelli si sono arruolati su fronti opposti – Lucia coi repubblichini, Ettore coi partigiani. Mentre prosegue e risolve la sua indagine personale, vive con dolore gli eventi che stanno insanguinando l’Italia e la sua famiglia, fino alla tragica conclusione nel 1945.

Narrazione e stile

Al di là dell’idea politica, che non sarà trattata in questa sede in quanto non pertinente, va riconosciuto a Soavi innanzitutto il coraggio di aver intrapreso e realizzato (bene) un progetto così titanico come la trasposizione di un libro già di per sé molto controverso. Il regista è evidentemente legato alla letteratura, visto che già Arrivederci amore, ciao era tratto dall’omonimo romanzo di Massimo Carlotto. Come in questo caso, anche ne Il sangue dei vinti Michele Soavi sceglie di trattare un argomento scomodo, confermandosi un cineasta coraggioso e mai banale. Il terrorismo e la guerra civile, due fra i temi più scottanti e sanguinari della Storia italiana. E lo fa con la consueta maestria tecnica e narrativa, mantenendo – almeno secondo chi scrive – uno sguardo il più oggettivo possibile: i “vinti” del titolo sono tutti, fascisti e partigiani, perché tutti hanno versato e fatto versare sangue.

Il sangue dei vinti è un’epopea di grande respiro che alterna, anche visivamente – quasi come una metafora della continuità delle ferite – scene del passato e presente. Il grosso della vicenda si svolge comunque ai tempi della guerra, fra il 1943 e il 1945, e la sceneggiatura (di Dardano Sacchetti e Massimo Sebastiani, con la collaborazione di Soavi) intreccia abilmente tre piani narrativi: la Storia con la S maiuscola, le storie della famiglia Dogliani e la vicenda giallo-poliziesca del delitto su cui indaga il commissario. Dopo il prologo, l’incipit della vicenda avviene proprio con il sanguinoso ritrovamento del cadavere (un certo coté macabro è spesso presente nei film di Soavi, forse un retaggio delle sue origini horror), che per un po’ di minuti sembra essere il tema principale del film. Il regista, esperto nella messa in scena di vicende poliziesche, si trova pienamente a suo agio nel rappresentare le indagini, con una minuziosa ricostruzione in cui si vede bene la sua mano solida (il modus operandi è simile infatti a quello dei protagonisti di Uno bianca o Ultima pallottola). Michele Placido, dopo il viscido e bastardo vicequestore Anedda di Arrivederci amore, ciao, dà vita con la stessa credibilità a un poliziotto completamente diverso: un fedele e onesto servitore dello Stato, duro ma umano, servitore ma non servo, indipendente dal regime nonostante per legge debba obbedirgli; la sua fede politica è la legge, la giustizia, lo Stato, e per questo motivo si getta anima e corpo nell’inchiesta, incontrando anche l’opposizione dei superiori (come spesso accade ai commissari, nel cinema di ieri e di oggi). In certi momenti, sembra davvero di trovarsi di fronte a un noir ambientato in tempo di guerra. Nel frattempo, la guerra però irrompe in maniera preponderante, alternando il racconto poliziesco con quello storico-sociale, decisamente più importante nel film. Ecco quindi entrare in scena la famiglia del commissario Dogliani: gli anziani genitori (due intensi Philippe Leroy e Giovanna Ralli), il fratello Ettore (Alessandro Preziosi) e la sorella Lucia (Alina Nedelea). Grande merito anche a questi due giovani attori, che incarnano con drammaticità e partecipazione l’opposizione ideologica (fra di loro e anche con la famiglia, da sempre neutrale) che li porterà a scontrarsi e allontanarsi. Fra gli attori, da segnalare anche Barbora Bobulova nell’importante ruolo di Anna Spada, la zia della piccola Elisa, che sarà protagonista insieme alla bambina e a Placido di una drammatica fuga in territorio fascista.

Il sangue dei vinti è improntato soprattutto al realismo drammatico, alla ricostruzione storica e all’analisi socio-psicologica dei protagonisti. Crudeltà e violenza (fisica e psicologica) sono messe in scena senza filtri, e da parte di entrambe le fazioni, mostrando la guerra come un orrore universale. Dopo qualche breve sparatoria nel corso del film, nella parte finale la regia concede due ottime e lunghe sequenze d’azione (di cui Soavi è un maestro), degne dei migliori film di guerra: l’agguato dei partigiani alla sede del RSI, con fucili, mitragliatrici, bombe, e i due cecchini sul campanile che sparano ai partigiani durante il corteo. Ecco quell’unione di impegno e spettacolo di cui si parlava in precedenza: e questo, si badi bene, non solo nelle sparatorie, ma in tutta la messa in scena, che punta dritto al cuore dello spettatore senza scadere in inutili intellettualismi. Il sangue dei vinti è una vera e propria epopea (non a caso, esiste anche la versione di circa tre ore), con una minuziosa ricostruzione storica (le scenografie sono curate dal grande e compianto Andrea Crisanti) e sequenze di forte impatto emotivo – una su tutte, il corteo finale dei partigiani che marciano dopo la Liberazione.

L’impronta registica di Soavi si nota spesso, nel corso del film, per l’utilizzo di particolari inquadrature e la creazione di una certa atmosfera (ed è anche da dettagli come questi che si vede la presenza di un vero autore). In ogni film di Soavi c’è sempre una scena in cui qualcosa precipita nel vuoto su uno sfondo nero: in Arrivederci amore, ciao era la catenina di Roberta a cadere in un immaginario nulla, qui sono invece una risma di volantini gettati da un ponte (di notte) e ripresi dal basso mentre cadono leggeri. Ma non solo: pensiamo ai fiocchi di neve che fluttuano nell’aria (e ricordiamo Dellamorte Dellamore), ai dettagli sulle armi e sui percussori che sparano (come nei suoi film polizieschi), alle inquadrature dal basso (i piedi) o dall’alto (una statua) che poi si aprono in un campo medio/lungo. Notevoli anche alcune immagini simboliche, come la raffica di mitra che taglia a metà la cartina dell’Italia, metafora di una frattura insanabile. L’atmosfera, grazie anche all’ottimo uso della fotografia con la predominanza dei toni scuri, è anch’essa un “marchio di fabbrica” del regista: costantemente grigia e funerea (non poteva essere altrimenti), quasi “gotica” in certi momenti, è forse il simbolo di un nichilismo assoluto.

La colonna sonora

Nel Sangue dei vinti, la colonna sonora occupa un gradino sotto rispetto alle immagini. Ci sono dei film in cui inquadrature e musica sono inossidabili, qui invece la musica è al servizio di quanto vediamo ma non ne risulta una componente primaria. Composta da Carlo Siliotto, comprende temi d’atmosfera che supportano il clima drammatico presente in tutto il film: toni lirici e cupi, a volte accompagnati da vocalizzi, si alternano a ritmi più incalzanti e ad altri più introspettivi. Notevole anche la commovente canzone interpretata (sui titoli di coda) dal personaggio della Bobulova.

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