Django

Django (1966) di Sergio Corbucci, la quintessenza del western italiano che ha ispirato Quentin Tarantino

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Intorno al film

Quasi in contemporanea con l’uscita del nuovo film di Quentin Tarantino Django Unchained, la collana Cinekult (Cecchi Gori Home Video) ripropone in un’eccellente edizione dvd e blu-ray la pellicola originale a cui il regista americano dice di essersi ispirato, Django (1966) di Sergio Corbucci, la quintessenza del western italiano. Il critico Marco Giusti non sbaglia nel definire Django “un supercult western in tutto il mondo”. Celebratissimo ovunque (una copia della pellicola è conservata anche al MoMA di New York) e pluricitato fino ai giorni nostri, il suo successo fu strepitoso già all’epoca: sia in Italia, dove si realizzarono numerosi western con protagonista un pistolero omonimo, sia all’estero, dove molti western uscivano col nome “Django” nel titolo. “Nocturno Cinema” definisce Django “il film che ha trasformato la concezione del western all’italiana: una sinfonia di sangue, crudeltà, fango e morte, orchestrata dal genio registico di Sergio Corbucci”. Mai definizione sarà più azzeccata, e vedremo subito il perché.

La vicenda

La vicenda inizia con l’arrivo di Django (Franco Nero), un pistolero solitario che cammina a piedi e trascina dietro di sé una bara. Dopo aver salvato una donna, Maria (Loredana Nusciak), giunge nella fangosa e semideserta cittadina di Tombstone, dominata da due bande rivali: gli uomini del maggiore Jackson, un fanatico razzista, e i messicani del generale Hugo Rodriguez. Django, il cui passato rimane avvolto nella nebbia, è arrivato a Tombstone per uccidere Jackson, colpevole dell’omicidio di sua moglie. Dopo aver eliminato la sua banda grazie alla mitragliatrice nascosta nella bara, prima si allea e poi entra in conflitto con i messicani, che lo lasciano vivo ma gli fracassano le mani. Nonostante la menomazione, Django affronta e uccide in un’emozionante duello nel cimitero il maggiore Jackson e i pochi uomini rimasti, proprio sulla tomba dove è sepolta la moglie. Il pistolero abbandona la pistola sulla croce e riparte a piedi, così come era arrivato.

Narrazione e stile

Django è un western fondativo del genere, almeno quanto Per un pugno di dollari di Sergio Leone. La tradizione vuole infatti che il western nostrano abbia avuto i suoi maggiori esponenti nei tre “grandi Sergio”: Leone, Corbucci e Sollima. Tutti con approcci molto diversi, ma ugualmente riusciti e fondamentali: Corbucci realizza i suoi capolavori con un’ideale quadrilogia sugli “anti-eroi”, alla quale appartiene proprio Django insieme a Il Grande Silenzio, I crudeli e Navajo Joe (il primo film italiano a trattare la questione indiana).

Django è una cruda storia di odio e vendetta, sconfitta e rivincita, solitudine e amarezza. Il film di Corbucci si candida ad essere uno dei western più violenti del periodo, assieme agli altri tre film della sua “quadrilogia” e ad altri due capolavori come Le colt cantarono la morte…e fu tempo di massacro di Lucio Fulci e Se sei vivo spara di Giulio Questi. In Django, almeno tre sono le scene di violenza esplicita: la Nusciak legata e frustata a sangue dai messicani all’inizio del film, l’uomo di Jackson a cui viene tagliato un orecchio e messo in bocca (Gino Pernice), la sequenza in cui gli uomini di Rodriguez fracassano le mani a Django (prima con il calcio del fucile, poi calpestandole con gli zoccoli dei cavalli). Ma anche quando la violenza non è mostrata in maniera così evidente, il film è sempre permeato da un senso di crudeltà realistica: si vedano, a titolo di esempio, i numerosi massacri a suon di proiettili (uno su tutti, quello compiuto dal protagonista con la mitragliatrice), il violento corpo a corpo nel saloon fra Django e un messicano, e il sadismo del maggiore Jackson che fa correre i messicani per poi usarli come tiro al bersaglio.

Un’altra cifra caratterizzante di Django è il suo essere incentrato sugli “outsider”, cioè anti-eroi, personaggi perdenti, emarginati, tormentati e in cerca di rivincita. Il protagonista è un tenebroso pistolero in cerca di vendetta (che dal nulla arriva e nel nulla ritorna), la componente femminile è formata dalle prostitute, Maria è contesa da tutti e non riesce a trovare un uomo che le dia sicurezza, e i nemici sono quanto di più squallido possiamo immaginare: sia i messicani, descritti in maniera animalesca, sia i fanatici razzisti del maggiore Jackson, che indossano sciarpe e cappucci rossi, quasi una sorta di metafora del Ku-Klux-Klan (portano anche una croce fiammeggiante). In Django, Corbucci è abile infatti nell’inserire un discorso razziale e sociologico (oltre che psicologico) all’interno di una storia di vendetta.

Uno degli elementi che più colpiscono in Django è sicuramente l’estetica, che ribalta quella leoniana. Al posto degli assolati territori messicani troviamo il fango e il grigiore; all’eroe Clint Eastwood che arriva a cavallo viene contrapposto l’anti-eroe Franco Nero che giunge in paese a piedi, vestito tutto di nero, con la sella in spalla e trascinando una bara nella fanghiglia. Molto curata è la fotografia (ad opera di Enzo Barboni, il futuro regista dei deprecabili western comici con Terence Hill nel ruolo di “Trinità”), la quale valorizza l’ambientazione prediligendo i toni scuri, come il grigio del fango e del cielo plumbeo. Grandiose anche le performance degli attori: in primis, Franco Nero (nel ruolo che lo ha lanciato, uno dei migliori della sua carriera), la cui interpretazione intensa e profonda è valorizzata dalla voce calda del doppiatore Nando Gazzolo; ma anche Loredana Nusciak, specializzata nei ruoli di donna sofferente e destinata al sacrificio (vedasi altri due western, 10.000 dollari per un massacro e Vendetta per vendetta); Eduardo Fajardo, i cui lineamenti severi e marmorei delineano alla perfezione un cattivo a tutto tondo come il maggiore Jackson (e il ruolo di antagonista sarà proprio una delle sue specialità in parecchi film); Josè Bodalo, uno dei messicani per eccellenza del western all’italiana, nella parte del generale Hugo Rodriguez; e anche tutti gli altri caratteristi, dal barista del saloon alle numerose “facce da galera” che rendono il film così duro e realistico.

Alcune sequenze rimangono nella storia del cinema, due in particolare: Franco Nero che attende da solo l’arrivo degli incappucciati rossi, per poi estrarre la mitragliatrice dalla bara e sterminarli quasi tutti; il duello finale nel cimitero, un altro topos del genere che viene rinnovato genialmente da Corbucci: Django, con le mani fracassate dagli uomini di Rodriguez, attende sofferente il compiersi della sua vendetta sulla tomba della moglie, per poi uccidere a sorpresa gli avversari colpendo ripetutamente il cane della pistola, la quale viene abbandonata sulla croce mentre il protagonista si allontana.

Django è un western che definirei “epidermico”, in quanto colpisce lo spettatore e gli fa percepire quasi fisicamente la puzza di “fango, sudore e polvere da sparo” (per citare il titolo di un altro western) che si respira dal primo all’ultimo minuto.

La colonna sonora

Django può vantare inoltre una strepitosa colonna sonora, composta dal maestro Luis Enriquez Bacalov: a partire dal leit-motiv del film, l’indimenticabile canzone “Django” cantata da Rocky Roberts (quasi una ballata in stile country che inizia in modo lento per poi diventare un’elettrizzante musica da duello) e proseguendo con il tema musicale che precede i momenti di maggiore tensione con una specie di climax ascendente; un orecchio attento, inoltre, può ascoltare un brano più pacato e malinconico (quando, verso la metà del film, Django aspetta l’arrivo degli uomini di Jackson), che anticipa alcune sonorità simili composte sempre da Bacalov per il successivo capolavoro Milano calibro 9 (1972) di Fernando Di Leo.

Davide Comotti. Bergamasco, classe 1985, dimostra interesse per il cinema fin da piccolo. Nel 2004, si iscrive al corso di laurea in Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Bergamo (laurea che conseguirà nel 2008): durante gli studi universitari, ha modo di approfondire la sua passione tramite esami di storia, critica e tecniche del cinema e laboratori di critica e regia cinematografica.

Diventa cultore sia del cinema d’autore (Antonioni, Visconti, Damiani, Herzog), sia soprattutto del cinema di genere italiano (Fulci, Corbucci, Di Leo, Lenzi, Sollima, solo per citare i principali) e del cinema indipendente di Roger A. Fratter.

Appassionato e studioso di film horror, thriller, polizieschi e western (soprattutto italiani), si occupa inoltre dell’analisi di film rari e di problemi legati alla tradizione e alle differenti versioni di tali film.

Scrive su “La Rivista Eterea” (larivistaeterea.wordpress.com), ciaocinema.it, lascatoladelleidee.it. Ha curato la rubrica cinematografica della rivista Bergamo Up e del sito di Bergamo Magazine. Ha scritto inoltre alcuni articoli sui siti sognihorror.com e nocturno.it.

Nel 2010, ha collaborato alla nona edizione del Festival Internazionale del Cinema d’Arte di Bergamo.

Ha scritto due libri: Un regista amico dei filmakers. Il cinema e le donne di Roger A. Fratter (edizioni Il Foglio Letterario) e, insieme a Vittorio Salerno, Professione regista e scrittore (edizioni BookSprint).

Contatto: davidecometti85€@gmail.com

 

 

 

 

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