Toni D’Angelo, figlio del celebre attore e cantante napoletano Nino, segue le orme del padre nella carriera cinematografica dedicandosi alla regia: dopo alcuni documentari (Poeti, Filmstudio, mon amour) e film quali Una notte e L’innocenza di Clara, conosce la sua consacrazione con il magnifico Falchi (2017), una pellicola nerissima a metà fra il poliziesco e il dramma.
Come ambientazione sceglie la sua terra, Napoli (D’Angelo è anche co-sceneggiatore), e si inserisce in uno dei generi che in passato ha fatto grande il cinema italiano e che ai giorni nostri conosce momenti alterni, cioè il noir/poliziesco. Nel cosiddetto “cinema di genere” ha furoreggiato per tutti gli anni Settanta e oltre, quando assurgeva a rappresentazione violenta e spettacolare della realtà italiana (polizia, malavita, rabbia dei cittadini, politica), e ha proseguito negli anni Ottanta e Novanta diradandosi però sempre di più come quantità e qualità. Negli anni post-2000, i grandi polizieschi e noir non sono molti, anche se alcuni risultano memorabili: da Romanzo criminale a Gomorra e Suburra (con le rispettive serie televisive derivate), da Arrivederci amore, ciao fino ad ACAB e Vallanzasca – Gli angeli del male, accanto a film più piccoli e indipendenti ma comunque interessanti quali Roma criminale e Song’e Napule.
Falchi si guadagna a tutti gli effetti un posto fra i grandi titoli del neo-poliziesco italiano, grazie a una solida e originale regia, una sceneggiatura articolata, personaggi magistrali e ricchi di sfaccettature, location ed estetica rielaborate fra il vintage e l’innovazione, scene d’azione ben coreografate che si accostano a dialoghi intensi e momenti intimisti, in una saggia mescolanza di poliziesco, action hongkonghiano alla John Woo e momenti da melodramma.
Protagonisti sono Peppe (Fortunato Cerlino) e Francesco (Michele Riondino), due poliziotti appartenenti al corpo dei “Falchi”, agenti in borghese che si muovono in moto lungo le tortuose e pericolose strade di Napoli. I due agiscono “contro il crimine, oltre la legge” (come recita la tagline del film), cioè agendo senza scrupoli e anche al di fuori della legalità, se necessario. Profondamente legati l’uno all’altro, vivono una vita difficile: il maturo Peppe arrotonda lo stipendio addestrano cani per i combattimenti clandestini, mentre il giovane Francesco deve convivere col rimorso di aver ucciso una donna innocente durante una sparatoria, e utilizza la droga per calmare la coscienza. Dopo il suicidio del loro capo, accusato di collusione con la camorra, Francesco si fa giustizia uccidendo il delatore e finisce per innamorarsi di una prostituta cinese che ha assistito al delitto. La donna è però sfruttata da una potente banda di malavitosi cinesi, e sia Francesco sia Peppe finiranno per trovarsi a combattere contro la gang.
I Falchi del titolo non sono poi molto diversi dalle “squadre speciali” che già popolavano la realtà e il cinema degli anni Settanta, poliziotti in borghese e dai metodi non convenzionali, spesso brutali: pensiamo in particolare a uno dei capolavori del genere, quel Napoli violenta di Umberto Lenzi che Toni D’Angelo aveva di certo in mente quando ha girato il suo film. Non vuole esserne un omaggio, ma in qualche modo lo richiama: innanzitutto possiamo notare la scelta delle location, talvolta identiche a quelle lenziane; molto illuminante in tal senso è un trailer montato dalla regista M. Deborah Farina per un festival di cui si è parlato in precedenza su questa rubrica, nel quale sono montati in sequenza spezzoni dai due film in modo da rendere l’illusione ottica di trovarci all’interno della medesima pellicola.
D’Angelo va però oltre ogni omaggio citazionista, creando un’opera nuova e squisitamente personale. Innanzitutto sotto l’aspetto visivo, grazie a una grande cura delle inquadrature e alla nitida fotografia di Rocco Marra. Ci sono le forsennate corse in motocicletta dal sapore molto seventies, con inquadrature sia oggettive sia in soggettiva dalla moto in corsa lungo le pittoresche stradine, ma Napoli diventa qualcosa di particolare, a metà fra il vecchio e il moderno, quasi un passaggio di testimone dal poliziesco classico di Lenzi a quello “gomorriano” di oggi. Merito anche di una tecnica sopraffina – ci sono inquadrature sbalorditive in cui da un’immagine della strada la macchina da presa si alza fino a inquadrare Napoli in campo lunghissimo, o altri campi lunghi di Napoli vista da un moderno grattacielo ricco di luci psichedeliche.
Falchi trasuda di un profondo amore per la città partenopea (vedasi anche gli struggenti paesaggi in riva al mare), ma al contempo ne mette in luce tutte le contraddizioni. All’estetica più tradizionale si affianca una Napoli notturna, piovosa, immersa in luci al neon dal gusto refniano e alla Michael Mann (thegamesmachine.it ha azzeccato vedendoci una cosmogonia quasi fantascientifica, un po’ alla Blade Runner per intenderci).
Le contraddizioni della città sono vissute in toto dai personaggi, mai così sfumati fra poliziotti, delinquenti e altri individui borderline (ottimo il cast, compresi i caratteristi di contorno). Sublimi le interpretazioni dei due protagonisti: Fortunato Cerlino, il celebre don Pietro Savastano della serie-tv Gomorra, si trova qui dalla parte della legge nel ruolo di un maturo e disilluso poliziotto che invano cerca di intraprendere una storia d’amore con l’intensa Stefania Sandrelli; Michele Riondino, fra i migliori attori del panorama italiano contemporaneo, è forse il personaggio più riuscito e complesso, così tormentato e diviso fra lavoro e vita allo sbando – pure lui è destinato al fallimento, e non conosce migliore sorte il suo rapporto con la ragazza cinese (Xiaoya Ma). Falchi dipinge una Napoli nerissima, forse persino più nera di quella che vediamo nei polizieschi anni Settanta: all’epoca c’era una distinzione quasi manichea fra buoni e cattivi, oggi non più, tutti nuotano in un marasma dove è quasi impossibile distinguere il bene dal male; una Napoli così diversa da quella delle altrettanto riuscite commedie poliziesche dei Manetti Bros. (il suddetto Song’e Napule e il recente Ammore e malavita). Ne è un simbolo il capo della squadra dei Falchi, interpretato dal bravissimo attore di cinema e teatro Pippo Delbono, e allo stesso modo non deve stupire il tragico finale, logica conclusione di un universo disperato.
La regia di Toni D’Angelo riesce a unire con disinvoltura l’aspetto più noir/poliziesco con quello (melo)drammatico. Dunque, certosina rappresentazione di questi poliziotti molto particolari e meticolosa messa in scena di un milieu malavitoso atipico: ai criminali tradizionali (camorristi e scippatori) si affiancano le nuove bande cinesi, con crudelissimi gangster che si destreggiano tra sfruttamento della prostituzione e combattimenti clandestini di cani. Anche per questo si parla di una strizzata d’occhio al cinema action del coreano John Woo: ma pure per alcune scene d’azione, in particolare la resa dei conti finale, con una sparatoria concitata e montata in modo frenetico; notevoli pure gli inseguimenti in moto, l’irruzione nella casa dei camorristi e le altre sparatorie (compresa la narrazione in un flashback progressivo, quasi argentiano, del trauma di Riondino).
Anche le musiche di Nino D’Angelo, talvolta più ritmate e talvolta più malinconiche, sembrano ricalcare le due “anime” di Falchi, quella più poliziesca e quella più melodrammatica.