Horror: Oculus (2013) di Mike Flanagan


oculus

Intorno al fim

Lo specchio è da sempre uno degli elementi più saccheggiati nella tradizione horror (cinematografica e letteraria), come dimensione “altra” da cui possono emergere i nostri incubi peggiori e la nostra metà oscura: fobie e ossessioni che si trasformano in demoni, fantasmi e creature varie. Dai classici Candyman e Il signore del male, ai cult Mirror e La bottega che vendeva la morte, fino ai “nuovi” Into the mirror e il suo remake Riflessi di paura, gli specchi continuano a far tremare gli spettatori: di recente, in sala abbiamo potuto vedere l’ottimo Oculus (USA, 2013) di Mike Flanagan, sul quale sono stati espressi vari pareri positivi. Il regista americano, già conosciuto per Absentia, dirige questo nuovo e inquietante horror (distribuito in Italia con l’aggiunta del sottotitolo Il riflesso del male) che si distingue dalla massa per una robusta introspezione psicologica e l’utilizzo di una particolare forma narrativa. Flanagan ha scritto e diretto il film partendo da un suo stesso cortometraggio.

La vicenda

Kaylie e Tim Russell (Karen Gillian e Brenton Thwaites) sono due fratellini che assistono al massacro dei genitori da parte di un’entità maligna sprigionatasi da uno specchio. Del duplice delitto viene accusato il piccolo Tim, che finisce in un istituto psichiatrico. Anni dopo, dichiarato guarito, viene dimesso e ad attenderlo trova la sorella, che nel frattempo si è rifatta una vita col fidanzato e un lavoro come battitrice d’asta. Proprio grazie a una vendita, riesce a rintracciare l’antico specchio maledetto che secondo lei è stata la causa della loro tragedia e anche di altre morti inspiegabili riguardanti i precedenti proprietari: insieme al fratello, torna nella vecchia casa e installa un sistema di telecamere con cui riprendere i fenomeni paranormali derivanti dall’oggetto. Ormai adulti, Kaylie e Tim dovranno affrontare di nuovo le paure e gli spettri che li avevano già ossessionati da piccoli.

Narrazione e stile

A chi ha una certa familiarità con gli horror incentrati sugli specchi, verrà forse spontaneo richiamare alla mente uno dei classici del genere, Mirror – Chi vive in quello specchio? (1980) di Ulli Lommel: anche lì uno specchio maledetto, due fratellini, il bambino che uccide l’amante della madre. Le similitudini si fermano però a queste suggestioni, quindi è difficile stabilire se Flanagan sia stato influenzato o meno dal cult di Lommel: Oculus, dal punto di vista sia narrativo che stilistico, prende poi una strada tutta sua che lo rende un prodotto abbastanza unico. Uno dei suoi caratteri distintivi è quello di non fare una separazione netta fra passato e presente, per esempio mostrando l’antefatto o richiamandolo con dei semplici flashback: in Oculus, il “prima” e il “dopo” scorrono continuamente quasi a formare un unico livello temporale. Grazie a un accurato lavoro di montaggio si alternano gli eventi del 2002 e del 2013: e la regia lo fa con una particolare sapienza, incuriosendo lo spettatore per poi interrompersi e spostare il piano narrativo sull’altro asse. Il film procede sempre così, anzi la distanza tra passato e presente diminuisce sempre più fino ad annullarsi nella parte conclusiva, quando vediamo in scena contemporaneamente i protagonisti da grandi e da piccoli che “guardano” loro stessi – con un forte effetto straniante e inquietante nello spettatore. Gli adulti sono quindi costretti ad affrontare nuovamente le paure che li avevano tormentati da bambini: un po’, se vogliamo, come nel celebre It di Tommy Lee Wallace (tratto dal romanzo di Stephen King), in cui però il passato e il presente erano separati dal punto di vista narrativo.

Un altro pregio di Oculus è quello di non puntare subito sul brivido facile e le emozioni “ad effetto”, tendenza dominante invece nell’horror contemporaneo (vedasi i vari The conjuring, Insidious, Sinister): Flanagan sembra voler recuperare lo stile di classici ghost-house anni Settanta come Ballata macabra o Amityville horror, in cui la costruzione dell’orrore è giocata sull’atmosfera cupa e claustrofobica e su una progressiva discesa nella follia dove il soprannaturale si intreccia indissolubilmente con la pazzia dei personaggi. Oculus è un film che fa paura, e al contempo si eleva al di sopra della media nella caratterizzazione psicologica dei personaggi – elemento per nulla scontato nel marasma di film horror prodotti al giorno d’oggi. Dopo l’incipit in media res, in cui viene mostrato brevemente l’antefatto e vediamo la demoniaca figura di donna con gli occhi bianchi, vengono presentati i protagonisti del passato e del presente: i due giovani ma bravi protagonisti (Kaylie e Tim adulti) e i co-protagonisti che rivestono un’eguale importanza, cioè i genitori (interpretati da Rory Cochrane e Katee Sackhoff) e i due bambini; tutti, come si diceva, convivono in un ideale e continuo flusso temporale, in cui la narrazione al presente si mescola continuamente con i flashback fino a fondersi in un’unica dimensione. Nessun grande nome nel cast, ma tutti bravi interpreti che si immedesimano con convinzione nei difficili ruoli, ricchi di implicazioni psicoanalitiche (incubi, ricordi rimossi, sensi di colpa).

Flanagan fonde abilmente vari stili: il genere gotico, con questa grande e spettrale villa, e un horror dal gusto più contemporaneo, virato però in maniera del tutto personale. La differenza tra il “prima” e il “dopo” è evidenziato anche da un uso accorto della fotografia: più calda e “anticata” nelle sequenze riguardanti l’antefatto, più limpida e “moderna” nei momenti ambientati al giorno d’oggi. La vicenda sembra prendere una piega quasi da mockumentary (in stile Paranormal activity) quando Kaylie posiziona computer e telecamere attorno all’oggetto per riprenderne le manifestazioni soprannaturali, e ne spiega la storia elencando le precedenti vittime, ma siamo da tutt’altra parte: nessuna finzione pseudo-documentaristica, ma una robusta narrazione condotta con mano ferma da una regia che – pur non avendo molta esperienza – dimostra di saperci fare nel genere. Oculus è infatti una lenta ma inesorabile (e mai banale) discesa negli inferi: alla presenza fantasmatica della ragazza con gli occhi luminosi, si alternano (e prevalgono, almeno nella prima parte) incubi e allucinazioni, che fanno sprofondare i genitori in un abisso di follia, con il padre alienato e la madre degenerata in un essere belluino. Ed è soprattutto in questo che il film riesce a far paura, avvolgendo lo spettatore in un questa progressiva e pesante cappa allucinatoria da cui non si può fuggire. E lo stesso avviene ai due ragazzi, durante la narrazione al presente, e persino lo scettico Tim (convinto di aver ucciso i genitori) sarà costretto a ricredersi sui poteri occulti dello specchio, che non tardano a manifestarsi nuovamente attraverso apparizioni e allucinazioni. La narrazione prosegue secondo uno schema di climax ascendente, e l’orrore – dapprima suggerito – diventa sempre più concreto fino a esplodere nel finale con la schiera dei posseduti che invadono la casa. Da antologia, infine, anche la conclusione crudele e beffarda, in cui torna a ripetersi pressappoco quanto accaduto undici anni prima. Oculus accontenta comunque anche chi ama il brivido puro, grazie alle improvvise apparizioni spettrali ad effetto che fanno letteralmente sobbalzare lo spettatore sulla poltrona.

La colonna sonora

Purtroppo, nella maggior parte del cinema horror (e non solo) contemporaneo, si è perso un po’ il gusto della buona musica: nei classici dei tempi d’oro, la colonna sonora rivestiva una funzione essenziale nella costruzione dell’atmosfera, assurgendo a componente primaria del film. Oggi invece non è così, e anche Oculus – pur se raffinato nello stile – non fa eccezione. La musica, composta dai The Newton Brothers, è funzionale comunque alla creazione del brivido, con i suoni tesi e vibranti che contrappuntano il climax della suspense, ma non c’è una melodia che rimane impressa: la colonna sonora si riduce più che altro a un sostrato sonoro di accompagnamento.

Davide Comotti

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