‘Maus’ di Art Spiegelman non è un fumetto sul nazismo. O meglio, non solo. E’ la storia (vera) di Vladek Spiegelman, padre dell’autore, prima-durante-dopo il campo di concentramento di Auschwitz (la prima svastica si vede solo a pagina 26).
Mentre la scrittura è asciutta, giornalistica (‘Maus’ vincerà il premio Pulitzer e sarà una delle prime opere riconosciute come ‘graphic journalism’), lo stile di disegno graffiato in bianco e nero rimanda alle incisioni medievali e più probabilmente all’espressionismo.
Leggendolo viene in mente Kokoschka, Munch e i film dell’espressionismo tedesco (‘Nosferatu’ e ‘Il gabinetto de Dottor Caligari’ in primis). Fonte dichiarata per la creazione dei topi di ‘Maus’ è lo stralunato fumetto Krazy Kat di Herriman, perché in ‘Maus’ gli ebrei sono rappresentati come topi e i nazisti come gatti.
A parte la raffigurazione dei personaggi tutto il resto è spaventosamente realistico. Ci sono i campi di concentramento, il coprifuoco, le discriminazioni e i furti, le mille ingiustizie che i nazisti hanno operato nei confronti degli ebrei residenti in Polonia. Vladek, il padre di Art Spiegelman, infatti fu un ebreo polacco e in ‘Maus’ se ne tratteggia un ritratto veritiero, quello di un padre ricco e burbero che si ritrova a vivere l’incubo del campo di concentramento.
Tutto avviene gradualmente, come se si scivolasse su un piano inclinato, come dei topi in trappola che inesorabilmente, crudelmente, finiranno sul fondo. E sul fondo c’è Auschwitz. Gli ultimi capitoli, quelli su Auschwitz, vibrano del dolore e dell’assurdità della ferocia umana e della spaventosa efficienza nazista. ‘Maus’ mostra gli orribili dettagli della vita nel campo di concentramento, se ‘vita’ si può chiamare.
Nonostante la scrittura distaccata, ma forse anche proprio per questo, ‘Maus’ fa indignare e arrabbiare il lettore. Quello che succede a Vladek e ai suoi amici e parenti, oltre che atroce, è assolutamente ingiustificato e ingiustificabile. Mostra al lettore i piccoli intrighi e scambi tra prigionieri, la ferocia dei Kapò, quello che si rischiava nei campi per un tozzo di pane.
Oltre alla scrittura, un grande effetto angosciante lo fa anche la regia (le inquadrature scelte nelle vignette) che è assolutamente priva di effetti speciali e si attiene a un certo canone tradizionale. Spiegelman stette ai fatti raccontati da suo padre e nella sua opera mette in mostra la sua decisione mentre racconta ogni episodio, aprendo un altro livello di lettura: quello del rapporto tra l’autore e suo padre Vladek.
E’ un libro sulla memoria dell’olocausto, la memoria di Vladek, è il ricordo di suo padre che rimane vivo nella memoria di Art. La bellezza di questo fumetto è l’abilità di tratteggiare personaggi assolutamente vivi e reali, incredibile è l’immedesimazione del lettore, attraverso topi dai volti tutti uguali.
La caratterizzazione dei personaggi è quasi assente ed è demandata a vestiti, cappelli, occhiali, persino le donne hanno il viso identico agli uomini. D’altra parte le loro espressioni minimali dicono tutto. Il che mi fa domandare: perché Spiegelman ha compiuto questa scelta di non-caratterizzazione? Per essere totalmente anti- Disney (data la natura della storia e la provenienza underground dell’autore)? Per accentuare la non-importanza dell’individuo di fronte alla macchina di morte nazista? Forse è per tutto, però quello che balza all’occhio del lettore, una volta chiuso il libro, è che gli individui di ‘Maus’ sono unici e ben caratterizzati a livello psicologico, ma diventano identici di fronte alla morte e ai loro carnefici.
‘Maus’ va letto, perché è un libro che nella sua asciuttezza e aderenza ai fatti aiuta a formarsi un’idea critica e obiettiva sulle atrocità del nazismo. Niente male per un fumetto.