PASQUALE SQUITIERI, IL REGISTA DI FERRO

Lo scorso 18 febbraio è morto a 78 anni il regista napoletano Pasquale Squitieri, uno degli ultimi “grandi” della vecchia generazione. Se n’è andato in un ingiusto silenzio, ricordato solo dai critici più attenti e da qualche breve notizia dei media. Eppure, con lui è scomparso un grosso pezzo del cinema italiano e internazionale: fu uno dei pochi autori – in un ideale terzetto con Damiano Damiani e Fernando Di Leo, anche se ciascuno in modo profondamente diverso e senza raggiungere le vette artistiche di Di Leo – in grado di coniugare impegno e spettacolo attraverso film polizieschi e crime-story. Che può sembrare una frase fatta, ma non lo è: Squitieri ha trattato i temi più scomodi della società e dello Stato italiano con un approccio duro, spettacolare, violento, in grado di fare presa sullo spettatore appassionandolo con storie forti, ma sempre in modo analitico, psico-sociologico e senza edulcorazioni; parafrasando il suo celebre film Il prefetto di ferro, possiamo quindi definirlo “un regista di ferro”.squitieri

Proprio questa durezza è uno dei motivi che ha reso Squitieri inviso a una certa parte della critica, insieme al suo impegno politico nella destra che però – nonostante il parere contrario di molti – ha influito solo in minima parte nella sua cinematografia. Sotto il suo sguardo sono finite la mafia e la camorra nella loro evoluzione storica, le collusioni tra Stato e mafia, gli anni di piombo, il terrorismo, la droga, il sistema carcerario, il brigantaggio ottocentesco, persino il Vaticano: numerose tematiche affrontate sono ancora di straordinaria e drammatica attualità. Per forza di cose, è sempre stato un regista scomodo, anzi, orgogliosamente scomodo e senza compromessi – e anche in questo risiede la forza del suo cinema. Un autore nel senso pieno del termine, visto che si è occupato spesso anche delle sceneggiature, attivo dal 1970 fino ai giorni nostri (l’ultimo lavoro risale al 2014).

Squitieri esordì un po’ in sordina con il dramma religioso Io e Dio (1970) e con due spaghetti-western firmati con lo pseudonimo di William Redford: il mediocre e poco significativo Django sfida Sartana (1970) e il più riuscito e interessante La vendetta è un piatto che si serve freddo (1971), uno dei pochi western italiani sugli indiani, film nel quale inizia a trapelare un certo interesse per le questioni sociali. Questi due film, non tra i più memorabili della sua carriera, sono in un certo senso propedeutici ai suoi grandi noir, in particolare per la costruzione delle scene d’azione che sono uno dei punti forti del cinema di Squitieri.

Il passo decisivo è la regia di Camorra (1972), un magnifico noir/poliziesco ambientato a Napoli e con un cast di lusso – Fabio Testi, Jean Seberg, Raymond Pellegrin, Charles Vanel – che narra l’ascesa e il declino di un guappo (Testi) nel sistema camorristico. Fra sparatorie, pestaggi, lotte con il coltello e un memorabile duello ai piedi del Vesuvio, Squitieri sviscera i meandri di questa Gomorra ante-litteram, restituendo uno dei primi ritratti crudi e veritieri della camorra, con personaggi complessi che diventano “persone”. Tutti caratteri seminali del suo cinema, compresa la realizzazione delle scene d’azione, con inquadrature dal sapore western, insomma un film che da prototipo al “poliziesco impegnato” di Squitieri – un po’ come lo è Confessione di un commissario per Damiani; anche se il nostro ha quasi sempre indagato i milieu della criminalità lasciando la polizia sullo sfondo, per cui si tratta più di noir che di polizieschi (e per questo motivo si preferisce usare i due termini insieme). Il regista prosegue il discorso sulla camorra con lo straordinario affresco storico I guappi (1974) e con L’ambizioso (1975). Ne I guappi ci spostiamo nell’Ottocento, una sfarzosa ricostruzione d’epoca non priva di azione e violenza ma notevole soprattutto per la descrizione della camorra primigenia come un’autentica setta quasi esoterica e con rituali di sangue (viene in mente in tal senso anche il notevole La mano nera di Antonio Racioppi sulla prima mafia americana); protagonista è ancora Fabio Testi insieme a Franco Nero e Claudia Cardinale, che per molti anni fu compagna di Squitieri e che recitò spesso nei suoi film. L’ambizioso è uno tra i film meno impegnati della lunga filmografia, ma al contempo il più spettacolare, un autentico film d’azione. Joe Dallesandro veste un po’ il ruolo che era di Testi in Camorra, il piccolo delinquente che cerca la scalata (fallimentare) nel mondo del crimine; fra sparatorie e inseguimenti, il film è un grande esempio di poliziesco quasi all’americana, e per la prima volta Squitieri inserisce quello che sarà uno dei suoi “marchi di fabbrica”, cioè l’uso del ralenti nelle scene d’azione, con funzione enfatica e spettacolare. Il regista tornerà a raccontare la camorra nella miniserie televisiva in tre puntate Naso di cane (1986).

Dopo questa ideale trilogia sulla camorra, Squitieri ne realizza una – anch’essa ideale, non programmatica – sulla mafia siciliana: Il prefetto di ferro, Corleone, Il pentito. Tre film, tre epoche. Il prefetto di ferro (1977) racconta la storia vera (col beneficio del romanzo cinematografico) del prefetto Cesare Mori, che durante il fascismo fu inviato in Sicilia per combattere la mafia, sgominò varie bande ma fu rimosso quando la sua lotta iniziò a toccare personaggi importanti e figure dello Stato. Protagonista è il granitico Giuliano Gemma, che armato di fucile si muove come uno sceriffo nel selvaggio West, accanto a Claudia Cardinale. Spettacolo e ricostruzione storica dettagliata si fondono sempre alla perfezione, facendo dell’opera uno dei film più riusciti e famosi di Squitieri. Dagli anni Venti, passiamo agli anni Cinquanta con Corleone (1978), ancora con Giuliano Gemma e Claudia Cardinale insieme a un ricco cast fra cui un giovane Michele Placido. La vicenda copre in realtà un vasto arco temporale, dalle lotte di contadini e sindacalisti (guidati da Placido) contro i latifondisti alla speculazione edilizia e ai primi processi contro la mafia, incarnata qui dal boss Francisco Rabal e da Gemma (versatile, da tutore della legge a mafioso). Con Il pentito (1985) siamo ormai nella mafia “moderna”, la storia di un magistrato (Franco Nero) e di un pentito (Tony Musante), personaggio ispirato a Buscetta: l’epoca dei maxi-processi, la mafia delle stragi, delle collusioni con lo Stato e la magistratura, dei rapporti con la grande finanza americana raffigurata da una star come Max von Sydow (da notare come le produzioni di Squitieri siano sempre grosse e con un cast di stelle). L’elemento spettacolare, fra sparatorie e uso del ralenti, raggiunge qua l’apice insieme a L’ambizioso.

Nel frattempo, Squitieri aveva però realizzato anche due altri film significativi e su temi diversi: Viaggia, ragazza, viaggia, hai la musica nelle vene (1973, fra i primi a trattare il tema della droga), una delle sue pellicole più scottanti, e L’arma (1978), sui cittadini che si armano per farsi giustizia da soli, un tema tanto attuale in quegli anni e che sta tornando alla ribalta nella società odierna. Quello che era Il giustiziere della notte americano diventa da noi Il cittadino si ribella e L’uomo della strada fa giustizia sul versante strettamente poliziesco, ma trova voce anche in opere più autoriali come Un borghese piccolo piccolo, Il giocattolo e il nostro film: il percorso autodistruttivo di un cittadino medio (Stefano Satta Flores) che decide di armarsi per difendersi finendo però in una spirale di follia, infine ucciso da un altro giustiziere solitario (da notare come tali storie mettano in guardia dal facile giustizialismo).

Il 1988 è un anno significativo per la realizzazione di due film tanto singolari quanto differenti. Gli invisibili, con un cast composto quasi interamente da attori sconosciuti, racconta la storia di alcuni giovani terroristi di sinistra, dalla militanza alla reclusione in un carcere di massima sicurezza. Russicum – I giorni del diavolo è al contrario un film ad ampio budget, ricco di star e un esempio quasi unico di spy-stoy “all’americana” girata in Italia: la complessa vicenda si svolge all’ombra del Vaticano, in una spietata lotta di agenti segreti della CIA e del KGB; sicuramente un film più di spettacolo che di denuncia, ma che ha il merito di trattare temi così scottanti in un periodo in cui quasi nessuno aveva il coraggio di farlo.

Due fra le opere più scomode e contestate dal punto di vista politico sono le ricostruzioni storiche – sempre ricche e minuziose – Claretta (1984), con Claudia Cardinale nel ruolo di Claretta Petacci (l’amante di Benito Mussolini), e Li chiamarono…briganti! (1999), una revisione della delicata questione meridionale dopo l’Unità d’Italia.

Squitieri ha poi trattato nel corso degli anni altri temi in film meno famosi ma sempre degni di nota e declinati secondo i canoni del noir: l’immigrazione dei meridionali al Nord in Razza selvaggia (1980), l’immigrazione degli stranieri in Italia ne Il colore dell’odio (1989), ancora la droga in Atto di dolore (1990) e le morti sul lavoro ne L’avvocato De Gregorio (2003).

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