Nella storia dell’arte, come nella moda, c’è spesso un ritorno di idee: quelle che erano novità per i precursori, diventano bagaglio culturale da cui attingere e recuperare per i successori.
Anche se a volte cogliere nell’arte contemporanea i richiami all’arte precedente risulta poco facile, è chiaro che ogni artista, qualsiasi opera abbia in mente di creare, ha dietro di sè una conoscenza profonda di ciò che è stato prima.
Una delle componenti fondamentali di un’opera d’arte, uno dei fattori più studiati sopratutto nell’arte pittorica è la luce: come influisce sui colori, sulle forme, sulla percezione; quanto è importante per determinare la nostra visione di un oggetto.
Se si parla di studio della luce non si può non citare gli impressionisti, coloro che della luce e della visione all’aria aperta ne fecero lo studio e il soggetto principale delle opere.
E c’è un artista che nonostante le sue opere siano quanto mai diverse da quelle di Monet o Degas studiò e lavorò molto sugli impressionisti, un artista la cui personalità forse non spicca per eccentricità e i cui quadri di rimando risultano forse un pò noiosi: Edward Hopper.
Nacque nel 1882 vicino a New york, in una famiglia ricca e ben inserita nella colta borghesia cittadina. Dopo aver conseguito il diploma come grafico pubblicitario, con i soldi guadagnati dal suo primo lavoro si spostò a Parigi: fu proprio qui che l’impressionismo ebbe su di lui un’influenza molto più forte di quello che lui stesso credeva. Non frequentò scuole o corsi in particolare, ma si dedicò all’arte in modo autonomo, visitando mostre, musei e caffè. Dipingeva all’aperto, sulla Senna, quello che i suoi occhi vedevano. La luminosità di Parigi gli pareva diversa da quella americana, una luce più forte in cui persino le ombre erano luminose.
Tornato a New York, l’atmosfera americana gli pareva troppo scura, troppo cupa rispetto a come l’aveva trovata in Europa durante il suo viaggi. Tornò a Parigi altre due volte, e durante i suoi soggiorni dipinse sempre en plain air, immerso in quella luce che tanto gli piaceva.
Risale a questo periodo, per esempio, Les Pont des Arts, una veduta di un ponte in primo piano dove le persone sono appena abbozzate e sullo sfondo, quasi una macchia di colore, si vede un lato del Louvre.
Il riconoscimento dal mondo dell’arte arrivò per Hopper relativamente tardi, dopo i 40 anni: fu solo allora che poté abbandonare il lavoro di grafico commerciale che tanto lo opprimeva e poté dedicarsi totalmente ed esclusivamente alla pittura.
Il soggetto principale delle sue opere era la vita reale: stazioni di servizio, palazzi, uffici, interni di stanze. Hopper diede un contributo importantissimo alla formazione di un nuovo tipo di realismo, un realismo che grazie allo straniamento a cui sono sottoposti i soggetti rappresentati raggiunge quasi una dimensione astratta. I dipinti assumono un diverso significato in base all’esperienza del soggetto che li osserva: sta qui la sua grandezza. Alcuni hanno ritenuto le sue rappresentazioni come il simbolo della desolazione americana, ma altri ci hanno visto invece il racconto dell’America di tutti i giorni, dei suoi abitanti, dei singoli individui dominati spesso da malinconia e fragilità.
Edward Hopper morì il 15 Maggio 1967. Due anni prima dipinse quello che si può considerare il suo addio alla scena: due attori si inchinano congedandosi dal pubblico, e sembrano essere proprio Hopper e la moglie Jo. Quasi un paragone di come la vita sia in realtà una commedia, in cui ognuno recita il proprio ruolo.
Una curosità: si è parlato spesso del rapporto tra Hopper e il cinema americano di quegli anni, e sopratutto dei legami con un regista in particolare. Osservate quest’ultimo quadro, forse vi ricorderà qualcosa!