Sulle intolleranze

Non mancano nelle ultime settimane gli stimoli per ragionare su cosa sta accadendo a questa società che tanto si preoccupa dell’economia, dello spread e dei rating e che ha perso, usando un termine gentile, l’educazione.

Così assistiamo a Senatori della Repubblica che danno dell’orango ad un Ministro per il nobile motivo della pigmentazione epidermica, ad altri che aggiungono che così dicendo si offende il primate e così via scendendo nelle quotidiane gentilezze nei confronti dei c.d. diversi e degli “ultimi”.

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E tutto questo quando diventa terribilmente normale (e ci siamo quasi) nel nome dei “valori” ne ribalta il senso e ne ottiene l’effetto opposto. I valori devono servire per aspirare al benessere e alla pace, con se stessi, con chi ci sta vicino e anche, e forse soprattutto, con chi ci sta lontano ed invece l’ortodossia distorta ci sta portando indietro di qualche secolo. Abbiamo un super-tablet in mano ma nello stesso tempo abbiamo acquisito sempre più l’apertura mentale tipica del medioevo, di un certo medioevo.

Siamo così abituati a sentire la parola “intolleranza” che l’abbiamo interiorizzata a tal punto da trovarla normale fino ad arrivare ad asciugarla di significato, ripulendola dalla rozzaggine di cui è portatrice.

Sono nato e cresciuto in una famiglia nella quale mi hanno insegnato, con le parole e con i gesti, che non bisogna essere intolleranti, che non si deve mai giudicare una persona perché in qualche modo risulta “diversa” in qualche cosa da noi, che la diversità non è ne una malattia e ne una “sfortuna” come molti pensano e dicono. Anzi, nelle “diversità” bisogna avventurarsi per avere una visione più ampia e chiara della vita e di ciò che ci circonda, così almeno è come la vedo io e di conseguenza mi comporto.

Negli anni ho imparato a rapportarmi con chiunque, cercando di alimentarmi di nuove esperienze e di aggiungere sempre più pezzi al puzzle della conoscenza. Perché è solo con i “rapporti sociali” che si può aspirare ad un sapere “solido”, tridimensionale ed emozionante. Ciò che non ti insegnano o che non ti fanno capire i libri (che comunque sono importantissimi e che fanno parte anche loro della mia dieta) lo puoi imparare dalla vita, dalle esperienze. Ed è chiaro che più sono le esperienze e più sono differenti tra loro e più si riesce ad avere una visione d’insieme più fedele alla realtà e meno condizionata dal conformismo e dai recinti mediatici che controllano l’opinione pubblica.

L’unica forma di intolleranza che ho maturato e che perversamente accudisco e quella verso l’ignoranza, l’ignoranza volontaria, cieca e cattiva. Intolleranza che è spesso sintomo di paura, paura che è spesso dovuta all’insoddisfazione e alla frustrazione personale le quali, con tutta probabilità, sono a loro volta causati dai modelli che, in modo tanto scientifico quanto criminoso, ci vengono imposti, stabilendo cosa è buono e bello e cosa è brutto e cattivo, alienando la nostra capacità critica e addirittura a volte perfino i nostri sensi.

Il problema è che non sappiamo più giudicare. Noi, liberissimi in mondo libero non siamo più abituati ad esercitare la nostra piena libertà di giudizio. Abbiamo “ribaltato” i ruoli e quindi abbiamo un’opinione pubblica (il popolo) che invece di dare “l’input” al “potere” per stabilire ciò che è importante e ciò che è secondario oppure, e rientriamo nel campo etico, a ciò che è “moralmente ammesso” da ciò che è da stigmatizzare, ne riceve (e ne attende) gli “output”, i “comandi” arrivando ad un livello di alienazione tale da non aver nemmeno più lo stimolo della protesta. Non solo accettiamo questa dinamica pur conoscendone gli effetti e i rischi, ma addirittura, come nelle dipendenze da sostanze, ne “abbiamo bisogno”. Come dice il grande Roberto Gervaso in un suo libro che un amico mi prestò qualche anno fa (italiani pecore anarchiche), gli italiani hanno bisogno di “stare in gregge” e di seguire il “grande capo pecoraio“, senza preoccuparsi dei contenuti o della sostanza… ma nello stesso tempo hanno bisogno di fare ognuno come gli pare, senza essere “disturbati”. E’ su questa paradossale verità che in parte si fonda la nostra crisi culturale come singoli e come società. Questo individualismo e questo conformismo piatto ci castrano nella nostra sfera esplorativa, quella che in passato ha fatto grandi molti italiani, quelli che usavano a pieno il proprio cervello e che non si piegavano alle “mode” e ai modelli imposti.

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Concludendo, (per non aprire altre parentesi che seppur interessanti ci porterebbero troppo fuori strada) la soluzione sta nel ritornare ad essere “pienamente uomini“, riprendendo l’abitudine a farsi domande, ad arrivare davanti alle scelte coscienti e preparati circa gli effetti che potrebbero avere le nostre decisioni, o più semplicemente usando un modo di dire, non giudicando un libro dalla copertina.

Alla prossima, Plesios.

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