All the World’s Futures: la Biennale di Venezia 2015

La biennale di Venezia è la finestra su cui affaccia il panorama dell’arte contemporanea. Come nelle sfilate sulle passerelle milanesi, vengono presentate le ultime novità in fatto di tendenza, in questo caso artistica, e così, quando si va a un’esposizione di arte contemporanea si dovrebbe sempre partire dal presupposto che quello che troverai è l’innovazione, non il passato.

Quest’anno il tema centrale della Biennale, conclusasi il 22 Novembre scorso, è stato il futuro: “All the world’s futures”, tradotto “Tutti i futuri del mondo”, attraverso il problema della sopravvivenza delle specie, dell’impatto dell’uomo sull’ambiente, del riscaldamento globale, dell’inquinamento, ma anche i cambiamenti sociali, l’importanza della memoria, del nostro percorso nella storia e nel tempo, del lasciare una traccia del nostro passaggio.

Se sì e tanto parlato del padiglione del Giappone di Expo, con code infinite e attese allucinanti (che poi allucinante è sapere che qualcuno le otto ore di coda le ha fatte veramente), altrettanto si sarebbe dovuto ottenere con il padiglione Giappone alla Biennale.

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Le foto non rendono per niente giustizia alla maestosità dell’installazione: due barche di legno, di quelle che immagini essere di un vecchio pescatore, riempite di chiavi arrugginite; al soffitto chiavi attaccate a una miriade di fili rossi che riempivano tutto lo spazio. Le chiavi sono il simbolo del ricordo, della memoria, e tutte quelle presenti nel padiglione erano state raccolte dall’artista, Chiharu Shiota, in giro per il mondo. Chiavi abbandonate, perse, rotte, rubate, legate a questi fili rossi che stanno a simboleggiare il legame tra le persone, o tra l’uomo e il suo passato. Le barche simboleggiavano due mani mentre catturano una pioggia di ricordi che piovono dal soffitto, mosse dal dondolio di in un mare immenso mentre raccolgono le memorie dell’uomo.

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Se quindi il Giappone ha voluto parlare di ricordi e memoria, il padiglione coreano presenta invece un mondo futuristico: le pareti erano schermi da cui vengono trasmessi video di una ragazza in un futuro ipertecnologico quanto ibrido e inquietante. E poi la Spagna, che ha visto protagonisti Dalì e Amanda Lear in un pittoresco scenario teatrale con strani protagonisti che alla fine si ritrovano a ballare Mistery, ognuno esponendo la propria identità. E la natura nel padiglione francese, dove il visitatore era invitato a sdraiarsi e osservare il continuo movimento rotatorio di un albero posto al centro della sala; o il Regno Unito, con le opere di Sarah Lucas che hanno strappato un sorriso sornione anche ai più puritani.

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Insomma, quello che è certo entrando nei padiglioni o negli spazi dell’Arsenale, è il fatto che ci si porrà sempre delle domande. Forse la prima per tutti sarà stata: quello che sto osservando è davvero arte o solo una presa in giro? E una buona risposta a questa la si può trovare proprio nella memoria della storia dell’arte, infatti, riprendendo le osservazioni di giornalisti all’epoca della prima mostra impressionista:

“Ovviamente, questa non è l’ultima parola dell’arte. e neppure di quest’arte particolare. Si deve raggiungere il punto in cui lo schizzo diventa un’opera compiuta. Ma quali squilli di tromba per coloro che hanno orecchie per sentire, e come echeggiano nel futuro!”

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