In memoria di Franco Citti: Il Decameron (1971) di Pier Paolo Pasolini

Intorno al film

Premessa indispensabile: la filmografia e l’arte di Pier Paolo Pasolini sono impossibili da rinchiudere in una sintesi (a tutto ciò sono stati dedicati interi saggi), per cui nella presente sede ci si limiterà a descriverne alcuni aspetti fondamentali concentrandosi soprattutto su uno dei suoi film-simbolo, Il Decameron (1971). Pasolini è stato e rimane uno fra gli intellettuali più importanti del XX secolo, attivo in ogni ambito della cultura e simbolo dell’unione fra arte e impegno politico. Per quanto riguarda il cinema, numerosi sono i film da lui diretti, la maggior parte dei quali sono entrati di diritto fra i capolavori della settima arte – non solo italiana, ma mondiale. Dagli esordi narranti la borgata romana (Accattone e Mamma Roma) allo storico-religioso Il Vangelo secondo Matteo, dalle rivisitazioni epiche (Edipo Re e Medea) al surrealismo di Uccellacci e uccellini, Teorema e Porcile. Oltre a vari documentari e partecipazioni a film collettivi, Pasolini ha diretto poi la cosiddetta “Trilogia della vita” (Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte) e il capolavoro estremo Salò o le 120 giornate di Sodoma, il suo ultimo film prima della tragica morte, divenuto un vero e proprio testamento artistico. Il Decameron, uno tra i suoi film più conosciuti e gradevoli, è tratto dall’omonima e celeberrima opera di Giovanni Boccaccio, una raccolta di cento novelle scritte dal medesimo presumibilmente tra il 1349 e il 1351 (o 1353 secondo qualcuno): Pasolini seleziona dieci novelle e le mette in scena con il suo inconfondibile gusto provocatorio, surreale, grottesco e piccante, circondandosi di vari attori-feticcio (Franco Citti, Ninetto Davoli) e partecipando lui stesso anche nelle vesti di attore. Come numerosi film di Pasolini, anche Il Decameron ebbe numerosi problemi con la censura, ma la critica riconobbe il suo valore assegnandogli l’Orso d’Argento al Festival di Berlino, ed è tutt’ora uno fra i massimi esempi del cinema d’arte italiano.

decameron

La vicenda

Il Decameron di Pasolini è quindi, come l’omonima opera letteraria, un film a episodi, in cui però le novelle sono narrate non nell’ordine originale di Boccaccio. Non c’è una cornice narrativa, perciò gli episodi iniziano ex abrupto, e non hanno un vero e proprio titolo, quindi per comodità sono denominati con la rispettiva novella. Giornata II, novella V: Il giovane Andreuccio (Ninetto Davoli) viene truffato due volte, ma finisce col diventare ricco. Giornata IX, novella II: Una badessa riprende una consorella ma è a sua volta ripresa per il medesimo peccato. Giornata III, novella I: Masetto si finge sordo-muto in un convento di curiose monache. Giornata VII, novella II: Peronella è costretta a nascondere il suo amante quando suo marito torna improvvisamente a casa. Giornata I, novella I: Ciappelletto (Franco Citti) si prende gioco di un prete sul letto di morte. Giornata VI, novella V: L’allievo di Giotto (Pier Paolo Pasolini) aspetta la giusta ispirazione. Giornata V, novella IV: Caterina dorme sul balcone per incontrare il suo amato la notte. Giornata IV, novella V: I tre fratelli di Lisabetta si vendicano del suo amante. Giornata IX, novella X: Il furbo don Gianni cerca di sedurre la moglie di un suo amico. Giornata VII, novella X: Due amici fanno un patto per scoprire cosa accade dopo la morte.

Narrazione e stile

Pasolini è sempre stato un artista “anarchico”, con uno stile e una poetica personalissima: non c’è quindi da stupirsi se ogni sua trasposizione cinematografica, sia dalla mitologia che dalla letteratura, contenga degli elementi di rilettura e innovazione. Come accaduto con l’epica di Edipo Re e Medea, anche Il Decameron viene rivisitato liberamente, pur mantenendo una solida fedeltà con gli scritti del Boccaccio, e così accadrà con le altre due opere della “Trilogia della vita”, incentrati su temi quali la sessualità, la religione, la vita: I racconti di Canterbury, trasposizione dell’omonima opera medievale di Geoffrey Chaucer, e Il fiore delle Mille e una notte, rivisitazione della celeberrima racconta di fiabe orientale (strutturata nella forma attuale intorno al 1400). La riduzione cinematografica di racconti medievali era stata affrontata già nel 1966 con un altro importante, seppur molto differente, film d’autore: Le piacevoli notti di Armando Crispino e Luciano Lucignani, interpretato da tre giganti del cinema italiano come Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi e Gina Lollobrigida, diviso in tre episodi liberamente ispirati da altrettante novelle del cinquecentesco Straparola, riunite nell’omonima raccolta che dà il titolo al film. Il film di Pasolini diede origine in seguito a un vero e proprio filone cinematografico italiano, con film d’intrattenimento più o meno riusciti, noto come “decamerotico”, incentrati su racconti di ambientazione medievale (non necessariamente da Boccaccio), divertenti e ricchi di situazioni erotiche e comiche. Il Decameron di Pasolini ovviamente è di tutt’altra caratura artistica. Il regista ha dovuto effettuare innanzitutto una selezione, essendo impossibile per forza di cose trasporre tutte le cento novelle, scegliendone dieci a suo piacimento che sicuramente nella sua ideazione hanno un significato particolare, anche nella successione (Pasolini ha sempre in mente una concezione “geometrica” nella struttura narrativa – vedasi anche i “Gironi” di Salò) – ricordiamo che il regista ha scritto anche la sceneggiatura; l’ambientazione rimane il Medioevo ma da fiorentina diventa napoletana, quindi i protagonisti parlano con uno spiccato accento partenopeo (comunque comprensibile nella maggior parte dei dialoghi); la struttura non è quella consueta del film a episodi, cioè ogni racconto introdotto da un titolo e da un chiaro stacco narrativo: oltre ad essere privi di titoli, i racconti non hanno una cornice narrativa e iniziano uno dopo l’altro senza soluzione di continuità, creando un senso di prosecuzione narrativa. Da notare almeno due particolarità nello svolgimento: l’episodio con protagonista lo stesso Pasolini (il sesto) nei panni dell’allievo di Giotto non termina con l’inizio del successivo, ma viene ripreso man mano come intermezzo – quasi a voler fare da ideale contenitore per le successive storie; l’altra peculiarità è la presenza ricorrente del personaggio di Ciappelletto non solo nella novella a lui dedicata ma anche nel crudele incipit e nel secondo episodio, che presentano (rispettivamente con un omicidio e un furto finalizzato a corrompere un ragazzino) questa figura scellerata, tanto più significativa in quanto interpretata dal grande Franco Citti, uno degli attori-simbolo di Pasolini insieme a Ninetto Davoli. Scoperto proprio da Pasolini, l’attore romano ha esordito nel cinema come protagonista di Accattone (che è anche l’esordio di Pasolini alla regia), proseguendo poi il sodalizio artistico con Mamma Roma – che forma con il precedente un amaro dittico sullo squallore della vita di borgata romana – Edipo Re, Porcile, Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte. La carriera cinematografica di Franco Citti si è intervallata (e proseguita) con altri registi come il fratello Sergio, ma anche Fellini, Petri, Bertolucci (ha un ruolo persino nel Padrino di Coppola), oltre a varie caratterizzazioni in polizieschi e noir dove ha interpretato spesso il ruolo di malvivente per via del suo volto truce e marcato.

Concluso il breve incipit, ecco apparire un’altra figura di spicco dell’universo pasoliniano, Ninetto Davoli, nei panni di Andreuccio, un mercante che giunge a Napoli per vendere i cavalli e rimane vittima di vari imbrogli. È sicuramente uno fra gli episodi più riusciti e divertenti del film, che contiene in nuce l’atmosfera boccaccesca fatta di burle (anche abbastanza cattive), battute sagaci e personaggi che mettono in pratica “l’arte di arrangiarsi” – alcuni fra gli elementi essenziali della narrazione di Boccaccio e che Pasolini riprende nel Decameron con la sua personale estetica, narrazione e visione del mondo, deformato da uno sguardo cinico e grottesco. Come l’opera trecentesca, anche il film di Pasolini presenta situazioni forti, piccanti, un linguaggio talvolta scurrile ma che non scade mai nella volgarità gratuita. Irresistibile l’ingenuità conferita da Davoli al personaggio, che prima precipita in una cloaca poi viene chiuso in una tomba dai ladri suoi complici, finendo col mordere la gamba di un altro tombarolo che credendolo lo spettro del defunto scappa via a gambe levate lasciando il bottino nelle sue mani. Il secondo episodio è il più strano dell’omnibus (termine con cui i critici inglesi indicano i film a episodi), visto che non è messo in scena visivamente ma narrato in pochi minuti da un cantastorie napoletano alla folla, mentre l’astuto Citti compie un furto e corrompe un ragazzino in cambio di favori sessuali (come lasciato all’intuizione dello spettatore). È significativa però l’ambientazione del racconto, un convento dove una suora è scoperta a compiere peccati carnali con un amante, le sorelle si precipitano a raccontarlo alla madre superiora ma lei stessa viene sorpresa a fare sesso con un sacerdote: pone infatti le basi per il racconto successivo, anch’esso ambientato in un monastero di suore. Si introduce qui l’elemento erotico e dissacratorio e la caustica burla delle istituzioni religiose, fondamentali in quasi tutta la filmografia di Pasolini, in cui sacro e profano si mescolano strettamente: protagonista è il giovane Masetto, un giovanotto che chiede ospitalità in un convento fingendosi sordomuto; ottiene vitto e alloggio in cambio del suo lavoro come ortolano, ma il suo vero obiettivo è sedurre le suore, contando sul fatto che la presunta menomazione garantisce il suo silenzio. Pasolini dipinge scene erotiche abbastanza spinte, con nudi anche integrali, mostrando quel gusto per la provocazione basilare nella sua concezione di cinema: oltre che sulla furbizia di Masetto, la regia mette l’accento sui desideri peccaminosi delle suore, che una alla volta finiscono per cedere alla tentazione; divertente il finale, quando il giovane inizia a parlare e la badessa grida al “miracolo”. L’erotismo nei conventi diverrà negli anni Settanta un tema ricorrente nel cinema italiano, generando numerosi film erotico/orrorifici di puro intrattenimento noti come “tonaca-movie”, filone che all’estero raggiunge anche un’alta vetta artistica con Interno di un convento di Walerian Borowczyk. Pasolini ama variare anche sulla durata dei racconti: rispetto a quelli di Andreuccio e Masetto, l’episodio della giovane Peronella è abbastanza breve, ma come sempre il regista riesce a dosare i tempi creando una storia graffiante e con il consueto gusto per lo sberleffo. La ragazza protagonista deve nascondere l’amante a causa dell’arrivo prematuro del marito, e trova un rifugio provvisorio in un grande otre: al coniuge dice trattarsi di un possibile acquirente del grande vaso e lo convince a entrare per pulirlo, mentre lei prosegue all’esterno il rapporto sessuale con l’amante, con un’azzeccatissima sequenza di doppi sensi. Con il quinto episodio entra di nuovo in scena, e questa volta da protagonista assoluto, Franco Citti nei panni di Ciappelletto: il personaggio è un malfattore che nella sua vita ha commesso ogni tipo di peccato, e viene incaricato da un ricco mercante di recarsi da due fratelli usurai. Ospitato dai due, si sente male durante la cena e qualche giorno dopo è ridotto in fin di vita: viene chiamato un frate per l’ultima confessione, ma Ciappelletto mente spudoratamente dicendo di non aver mai commesso peccati, tranne in due occasioni, quando ha sputato in chiesa e quando ha insultato la propria madre. Il frate lo assolve, e una volta morto Ciappelletto viene portato in chiesa dove numerosi pellegrini accorrono per rendere omaggio a quest’uomo creduto quasi un santo. Rispetto alle vicende di Andreuccio e Peronella, più da commedia, qui i toni si fanno decisamente forti, come sempre quando Pasolini tratta l’argomento religioso: il personaggio di Citti è un poco di buono, truffatore, assassino, frequentatore di prostitute e omosessuali, ma in punto di morte trova la forza di prendere in giro il frate (e con lui la Chiesa e la religione), finendo paradossalmente per essere venerato come un sant’uomo; molto cruda anche la battuta messa in bocca al religioso, che rispondendo a Ciappelletto colpevole di aver sputato in chiesa dice che “anche i preti lo fanno ogni giorno”. Con il sesto episodio entra in scena lo stesso Pasolini nei panni di un pittore allievo di Giotto, incaricato di affrescare la chiesa di Santa Chiara a Napoli: l’artista è in preda a una crisi di ispirazione, e deve aspettare l’occasione giusta per iniziare il suo lavoro. La vicenda fa da ideale “contenitore” per gli ultimi quattro episodi, intervallati dalla presenza del Pasolini-pittore che medita sull’affresco da realizzare: si può interpretare anche in senso meta-cinematografico, cioè con il Pasolini-regista (e in generale ogni tipo di artista) che ha bisogno della giusta ispirazione per creare le proprie opere. L’episodio di Caterina ci riporta su un territorio più sollazzevole e piccante, dove la furbizia e l’opportunismo prevalgono sulla morale: la ragazza non sa come incontrare il suo amato Riccardo per via dell’opposizione della famiglia, così prende la scusa del caldo per poter dormire sul terrazzo, dove l’uomo la raggiunge e possono finalmente consumare il loro amore; sorpresi dal padre, vengono perdonati a patto che il ragazzo la prenda in moglie, visto che potrebbe essere un buon partito. Pasolini è abile nell’alternare il tipo di storia, così la successiva è una fra le più drammatiche e macabre di tutto il film. Protagonista è la giovane Lisabetta, i cui tre fratelli non approvano la relazione col servo Lorenzo per cui – attiratolo con un inganno nel bosco – lo uccidono e lo seppelliscono sul posto. La ragazza è turbata dall’assenza dell’amato, che una notte le appare in sogno dicendole che è stato assassinato e indicando dove è sepolto il suo corpo. Lisabetta vi si reca insieme a una serva e trova davvero il cadavere: decide di tagliargli la testa e di metterla nella terra di una pianta di basilico come concime. Una vicenda dai tratti molto crudi, quasi grandguignoleschi quando la testa viene tagliata, lavata e messa nel vaso: emerge qui l’aspetto più estremo e macabro della poetica pasoliniana, elevato al massimo in Porcile e soprattutto nel crudelissimo Salò. Il nono episodio è giocato invece ancora sulla burla: il furbo don Gianni, per sedurre la bella moglie di un suo amico, dice che ha la possibilità di trasformarla in cavalla, e per farlo deve consumare un rapporto sessuale con lei. In storie come questa e la precedente di Caterina sono notevoli e divertenti le situazioni equivoche, i doppi sensi (“l’usignolo” e “la coda” come metafore del membro maschile) e l’opposizione tra furbizia e ignoranza o credulità. Nell’ultimo episodio Pasolini torna sul tema della morte, dopo la vicenda di Ciappelletto – incredibile come riesca a trattarlo con leggerezza: due amici si interrogano su cosa ci sia dopo la morte e fanno un patto in virtù del quale il primo che muore torna all’altro a riferire cosa c’è nell’Aldilà; l’amico più voluttuoso muore e una notte compare di fronte al letto dell’altro, dicendo che non è peccato fare sesso, così l’altro – che si era mantenuto casto per timore di una punizione ultraterrena – può soddisfare le sue voglie con la donna desiderata. Conclude il film la vicenda di Pasolini, che finalmente, grazie a una visione, riesce a trovare la giusta ispirazione e affresca la Chiesa; di fronte alla sua opera, il pittore (che sembra essere un alter-ego del regista) afferma: “Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?”.

L’ultimo episodio offre un significativo spunto di riflessione perché contiene in nuce un po’ tutti i temi fondamentali della poetica pasoliniana: un magma di tematiche già presenti nell’opera letteraria del Boccaccio e che il regista traspone e adatta alla sua visione della realtà. Come si è detto, basilari sono la sessualità, la religione, il senso della vita, l’arte, la morte – per quanto riguarda le riflessioni più profonde – e in alternanza il gusto boccaccesco per la provocazione e lo scherzo, che finiscono per confluire o coincidere in storie rispecchianti il pensiero pasoliniano. Forma e contenuto sono una cosa unica per Pasolini: alla narrazione procede infatti di pari passo un’incredibile e sfarzosa messa in scena artistica, curata in ogni suo dettaglio – costumi, scenografie, fotografia. E in tutto ciò vi contribuiscono fior di maestri del cinema italiano: Tonino Delli Colli alla fotografia, Dante Ferretti alle scenografie, Danilo Donati ai costumi, montaggio di Nino Baragli e musiche dello stesso Pasolini con la collaborazione di Ennio Morricone. Pasolini riesce a creare un’opera veramente pittorica – in certi momenti sembra di trovarsi di fronte a dei quadri – e che riproduce in modo fedele il mondo medievale: castelli, case contadine, stradine lerce e processioni umane. È proprio nelle scene di massa – visionarie, allucinate e volutamente eccessive – che emerge al meglio la creatività del regista, un vero artista del cinema: pensiamo in particolare al mercato del bestiame, la sequenza onirica della “Regina dei teschi” con dame, cavalieri e altri bizzarri personaggi, la “processione” che si reca a venerare Ciappelletto e soprattutto la visione che ispira l’allievo di Giotto, una sorta di Paradiso (con il cameo di Silvana Mangano nel ruolo della Madonna) mescolato a immagini infernali che sembrano precorrere il finale di Salò. Il Decameron è marcatamente pasoliniano anche negli attori e nei personaggi: non solo per la presenza di Citti e Davoli, ma anche per l’utilizzo di caratteristi o attori poco conosciuti che rispecchiano però al meglio la storia e la poetica – uomini grotteschi, sdentati, brutti, accanto a belle donne agghindate nei modi più disparati. Troviamo vari caratteristi come Guido Alberti, Vincenzo Amato, Angela Luce, Gianni Rizzo, Monique van Vooren (nel ruolo della “Regina dei teschi”), Vincenzo Ferrigno, Vittorio Vittori: escluso l’illustre cameo della Mangano e i due fedelissimi di Pasolini, non ci sono nomi particolarmente celebri (come accade spesso nei suoi film), ma questo risponde precisamente all’idea di cinema “popolare” del regista, e la scelta è di un’efficacia strepitosa.

La colonna sonora

Pier Paolo Pasolini si occupa anche della colonna sonora, curata da lui con la collaborazione di Ennio Morricone: il risultato è un insieme di brani non invasivo – non c’è un tema musicale che rimane particolarmente impresso – ma un insieme di sonorità medievaleggianti che contribuiscono in modo significativo a immergere lo spettatore in questo universo grottesco e anche “fiabesco” in un certo senso. Notiamo anche la presenza di canti ecclesiastici e ballate popolari, il tutto in stile medievale.

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