The hateful eight (USA, 2015) di Quentin Tarantino

Intorno al film

Quentin Tarantino torna alla ribalta con un nuovo film, e come sempre fa parlare di sé, ottenendo un grande successo al botteghino e suscitando pareri discordanti nella critica e nel pubblico. In seguito a vari progetti di cui si vociferava in modo più o meno fondato, Tarantino ha deciso di proseguire la sua personale esplorazione del genere western: dopo il capolavoro Django unchained (2012), ecco The hateful eight (USA, 2015), un nuovo e mastodontico film della durata di circa tre ore, che non raggiunge la perfezione del precedente ma è comunque un grandioso kolossal dal respiro epico e spettacolare, ricco di suspense e sangue, nel tipico stile del regista (che scrive anche la sceneggiatura), circa tre ore che si godono tutte d’un fiato senza mai annoiarsi. The hateful eight viene presentato come l’ottavo film di Tarantino (considerando i due Kill Bill come un film unico, visto che formano una storia sola), e per l’occasione il regista ha girato utilizzando la pellicola 70mm invece della consueta 35, che consente un formato maggiore in larghezza e una risoluzione più profonda dell’immagine. Nella maggior parte delle sale italiane circola comunque la versione “adattata” digitalmente nei classici 35mm della durata di 167 minuti, e solo in alcune sale c’è la proiezione in 70, che dura 20 minuti in più: alcune scene (come il prologo e l’intermezzo) sono pensate appositamente per valorizzare questo formato, per esempio i meravigliosi paesaggi, e in questa proiezione originale il film acquista una dimensione quasi “wagneriana”, teatrale, intesa come opera d’arte totale.

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La vicenda

Wyoming, qualche anno dopo la fine della Guerra di Secessione. Fra le montagne innevate, durante una bufera, viaggia una diligenza diretta alla cittadina di Red Rock: a bordo ci sono il cacciatore di taglie John Ruth detto “Il Boia” (Kurt Russell) e la sua prigioniera, la fuorilegge Daisy Domergue (Jennifer Jason-Leigh), che l’uomo sta conducendo al paese per farla impiccare. Sulla strada incontrano un altro bounty-killer, il maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson), che sta trasportando alcuni cadaveri per riscuoterne le taglie, e un uomo che si presenta come il futuro sceriffo di Red Rock, Chris Mannix (Walton Goggins). Il viaggio prosegue nella diffidenza reciproca e nell’ostilità fra Warren, uomo di colore, e l’ex sudista Mannix, ostilità che spinge il maggiore e “Il Boia” a stringere alleanza. Arrivati alla stazione di servizio, vengono accolti da Bob il messicano (Demián Bichir) e fanno la conoscenza degli altri ospiti, tutti diretti verso Red Rock e bloccati dalla bufera di neve: il boia Oswaldo Mobrey (Tim Roth), il cowboy Joe Cage (Michael Madsen) e l’ex generale sudista Sanford Smithers (Bruce Dern). Otto sconosciuti intrappolati in un trading-post sulle montagne: sospetti e tensione regnano fra gli ospiti, e qualcuno non è realmente chi dice di essere.

Narrazione e stile

Come accade per tutti i registi, Tarantino si può amare oppure no, si possono apprezzare di più alcuni film rispetto ad altri, ma Quentin ha una peculiarità: qualsiasi film da lui diretto è inconfondibilmente suo, non si può sbagliare, la narrazione, lo stile, i dialoghi, persino vari attori e caratteristi sono sempre quelli, seppure abilmente adattati da una pellicola all’altra. Eppure il cinema di Tarantino ha conosciuto una lunga evoluzione temporale: era il 1992 quando esordiva alla regia con Le iene, e pensiamo alla differenza di budget fra questa sorprendente opera prima, girata con un costo relativamente basso, e gli ultimi tre kolossal Bastardi senza gloria, Django unchained e The hateful eight. Ma il suo modo di fare cinema è rimasto pressoché invariato: ci vorrebbe un interno saggio per analizzarlo nel dettaglio, per cui basti ricordare lo stile “pulp” e fumettistico, la violenza esasperata, il citazionismo oltranzista dei suoi film più amati (in particolare italiani), le contorsioni temporali a base di flashback e flashforward, i dialoghi lunghi e curatissimi, una buona dose di umorismo nero. Questi ingredienti sono presenti e fondamentali anche in The hateful eight, anche se d’altro canto è innegabile che con i due western e Inglorious Basterds Tarantino ha raggiunto una maturità, un afflato epico che non c’era nelle opere precedenti. Non a caso, Bastardi senza gloria è fra i migliori war-movie dagli ultimi anni, e lo stesso dicasi per i western: il genere americano per eccellenza ha conosciuto, a partire all’incirca dagli anni Ottanta, un progressivo declino quantitativo e qualitativo. Prendendo come data simbolica il 1990, quattro sono i western veramente memorabili da allora ad oggi, le nuove pietre miliari del genere: Gli spietati (1990) di Clint Eastwood, amarissimo e crudo canto del cigno sulla fine di un’epoca, Pronti a morire (1995) di Sam Raimi, vorticoso e divertente “luna-park” visivo a base di duelli e vendette con omaggi agli spaghetti-western, e appunto i due di Tarantino, che coniugano epica americana e omaggio agli western italiani. Django unchained e The hateful eight sono parecchio diversi fra loro per quanto riguarda storia e ambientazione, ma hanno in comune un aspetto più “impegnato” che Tarantino tratta a modo suo con spensieratezza (si potrebbe discutere sull’aspetto morale e “politcally uncorrect”, ma qui si parla di cinema in senso stretto): la Guerra Civile, le sue ferite sociali, lo schiavismo, la difficile convivenza tra bianchi e neri e tra nordisti e sudisti anche dopo la guerra (spesso si utilizza il termine “negro” nei dialoghi). Se Django si svolge poco prima della Guerra di Secessione, è ambientato nelle assolate terre del Sud ed è una storia più ricca d’azione, incentrata su vendetta e riscatto personale, con The hateful eight ci spostiamo nel periodo post-bellico, sulle innevate montagne del Wyoming, il film è ambientato circa per l’80% negli interni del trading-post, si spara di meno e la sceneggiatura concede ampio spazio all’elemento giallo; in proposito, è curioso il fatto che Tarantino abbia scelto il formato 70mm, che valorizza soprattutto i grandi paesaggi esterni, per un western così “da camera”, anche se gli esterni sui monti del Wyoming sono davvero monumentali, hanno quasi il sapore dei western epici di John Ford.

Come si diceva, nel corso della sua lunga carriera Tarantino ha omaggiato un po’ tutti i generi e gli stili cinematografici, in particolare quei film americani, italiani e orientali tanto amati da lui e dal pubblico, ma ritenuti dalla critica più snob film “di serie B”, o con una definizione generalista ma più neutra film “di genere”: western e polizieschi italiani, film asiatici di arti marziali, horror italiani e americani, film a basso costo di pura exploitation (il cosiddetto “grindhouse”), pulp, blaxploitation, con un occhio anche al mondo dei fumetti popolari. Se Django unchained era una fucina di citazioni dagli spaghetti-western, con The hateful eight gli omaggi al western nostrano si fondo armoniosamente con uno sguardo al western d’oltreoceano. Ogni film di Tarantino diventa un trivia in cui divertirsi a trovare le citazioni, e il regista probabilmente ne sarà contento visto che il suo scopo principale è intrattenere il pubblico. Sicuramente, recupera da Il grande silenzio di Sergio Corbucci i paesaggi innevati, il cacciatore di taglie vestito con la pelliccia (là Klaus Kinski, qui Kurt Russell) e il bounty-killer che ferma la diligenza per trasportare i cadaveri; la figura del maggiore Marquis Warren è evidentemente ripresa dal colonnello Mortimer (Lee van Cleef) di Per qualche dollaro in più di Sergio Leone, elegante e con la pipa, idem dicasi per l’alleanza opportunista fra i due cacciatori di taglie; lo sparo che colpisce dal basso Samuel L. Jackson in mezzo alle gambe riprende un marchio di fabbrica di Enzo G. Castellari, maestro del cinema western e poliziesco italiano, che utilizzava spesso questa inquadratura, per esempio nel western Keoma; la strage degli innocenti nel trading-post, narrato in flashback, è cadenzato secondo un ritmo leoniano fatto di un’attesa tesissima e snervante con inquadrature sui volti e sulle pistole – vengono in mente i duelli di Sergio Leone e soprattutto il similare massacro iniziale di C’era una volta il West; non è così esplicito, ma probabile, che Tarantino avesse in mente un misconosciuto e sanguinario western italo-spagnolo, Condenados a vivir di Joaquin Romero Marchent, un western/horror dove un gruppo eterogeneo di individui lotta per la sopravvivenza tra le montagne innevate; la componente gialla, con omicidi e assassini da scoprire, riprende un sottogenere del western che ha prodotto gioielli come Il venditore di morte e Il tredicesimo è sempre Giuda in Italia oppure Io non credo a nessuno e Poker di sangue negli Stati Uniti; la sua natura di western “da camera”, cioè incentrato su un gruppo di persone in un luogo chiuso che porta alla deflagrazione dei loro rapporti, è stata giustamente associata dalla rivista Nocturno Cinema a un altro misconosciuto western di casa nostra, Prega il morto e ammazza il vivo di Giuseppe Vari. Ma The hateful eight è anche un contenitore di riferimenti al western americano: il titolo risponde ironicamente al classico I magnifici sette di John Sturges (che qui diventano “gli odiosi/spregevoli otto”), il viaggio in diligenza con sosta al trading-post e descrizione dei differenti personaggi riecheggia il monumentale Ombre rosse di John Ford, così come i maestosi paesaggi innevati ricordano non solo il suddetto Grande silenzio ma anche l’epica del western americano; più nel sottile, l’esecuzione a sangue freddo nella latrina è ripresa in modo abbastanza fedele da Gli spietati di Clint Eastwood. Infine, le inquadrature al ralenti durante le sparatorie, con dettagli sugli schizzi di sangue dalle ferite, dimostrano come Tarantino abbia recepito la lezione stilistica di Sam Peckinpah (Il mucchio selvaggio) e di Castellari, che non a caso è fra i registi più amati dal nostro. Oltre al western, da notare anche l’atmosfera “horror” (non solo per le scene di sangue) che rimanda a La cosa di John Carpenter, ovviamente nelle atmosfere e non nel discorso fantascientifico: il protagonista Kurt Russell, le musiche di Ennio Morricone tratte da questo film, la baracca immersa nella neve, le situazioni in cui tutti i personaggi sospettano di tutti.

Volendo, si potrebbero trovare altre citazioni o fonti d’ispirazione, ma il quadro fornito è abbastanza sufficiente: un caleidoscopio di film anche molto diversi fra loro, che il regista è abile nel centrifugare ottenendo un unicum di grande potenza visiva e narrativa. Ovviamente, come per ogni suo film, The hateful eight non è un semplice insieme di omaggi, visto che Tarantino è innanzitutto un maestro della sceneggiatura e riesce a creare una storia praticamente perfetta, dove tutta la sua cultura cinefila convoglia in un prodotto assolutamente nuovo e sbalorditivo, un film che inizia come un viaggio e prosegue trasferendosi nella stazione di servizio dove si svolge il grosso della vicenda. Altrettanto dicasi per i dialoghi, sempre curati in maniera certosina, lunghi e ricchi di perifrasi, volgarità, humor nero – fra l’altro, funzionano benissimo sia in inglese originale sia nel doppiaggio italiano. L’opera è suddivisa in sei capitoli, ciascuno introdotto da un titolo, e presenta due tipi di flashback: uno più classico, con lo stacco su episodi avvenuti in precedenza (l’omicidio compiuto anni prima da Warren e la strage avvenuta la mattina stessa al trading-post che spiega quanto accaduto e la vera identità dei personaggi); uno più squisitamente “tarantiniano”, cioè una riproposizione della stessa scena da un diverso “punto di vista”: concluso il duello tra Warren e l’anziano generale sudista, la narrazione torna indietro e inquadra una misteriosa mano che mette il veleno nel caffè, mentre la fuorilegge osserva in silenzio e sullo sfondo si intravede il suddetto duello (un metodo narrativo che ricordiamo soprattutto in Pulp Fiction e Jackie Brown), con la presenza di una voce narrante. Il fatto che la sceneggiatura sia così curata lo capiamo man mano che la vicenda va avanti, ma fin dalle prime immagini è chiaro – se mai ce ne fosse bisogno – come Tarantino sia un maestro dell’immagine, oltre che un grande narratore. La macchina da presa inquadra infatti sontuosi paesaggi ricoperti dalla neve, riprende nel dettaglio un grande crocifisso di legno per poi iniziare un poderoso piano-sequenza sulla diligenza (ce ne sono parecchi nel film), il tutto ripreso con colori molto accesi che saranno una caratterista fissa del film (in particolare il bianco della neve e il rosso del sangue), grazie all’ottima fotografia di Robert Richardson. E qui inizia la presentazione dei vari personaggi, altra specialità della regia, grazie anche agli attori in stato di grazia che offrono caratterizzazioni marcate e volutamente iperboliche, sopra le righe: il burbero Kurt Russell (già diretto in A prova di morte) impellicciato come un trapper e incatenato alla fuorilegge Jennifer Jason-Leigh, la cui bellezza è scalfita da un aspetto trasandato e da un occhio nero – non c’è da stupirsi, visti i pugni e le gomitate che il carceriere le rifila continuamente; se Russell è “Il Boia”, un cacciatore di taglie che porta sempre le sue vittime vive al patibolo, Samuel L. Jackson (Pulp Fiction, Jackie Brown, Django unchained) è un elegante maggiore nordista, ora bounty-killer, in uniforme dai colori sfavillanti che preferisce uccidere direttamente le sue prede. A guidare la diligenza c’è O.B. (il caratterista James Parks, figlio del più celebre Michael), e al gruppo si unisce Walton Goggins nei panni del bizzarro Chris Mannix, sedicente sceriffo di Red Rock. A bordo della diligenza inizia un discorso pseudo-politico in cui emerge il passato oscuro di ciascuno – Mannix era un guerrigliero sudista, Warren un ex nordista divenuto un ricercato – e nasce quello che sarà uno dei tormentoni della storia, cioè una presunta lettera di Abramo Lincoln a Warren che l’ex ufficiale custodisce gelosamente. La narrazione è lunga e minuziosa (forse anche troppo in certi momenti), ma riesce ad appassionare, e occupa i primi 45 minuti circa. L’arrivo alla stazione di sosta fa da vera svolta narrativa: si passa dall’esterno all’interno – escluse alcune scene ambientate ancora in esterni – e la vicenda entra nel vivo. Qui troviamo gli altri quattro personaggi degli “otto” del titolo (O.B. è solo un carattere di contorno), cioè il “nuovo” Demián Bichir e tre fedelissimi di Tarantino, Tim Roth, Michael Madsen e Bruce Dern (vecchia gloria del cinema americano): sono rispettivamente un rozzo messicano che dice di sostituire i consueti proprietari, l’elegante boia inglese diretto a Red Rock (Roth nell’aspetto e nelle movenze ricorda molto Christoph Waltz, forse il ruolo era pensato per lui), un taciturno cowboy in viaggio per trovare la madre, un anziano generale sudista che si reca alla tomba del figlio. Non tutti però sono realmente chi dicono di essere, e lo scaltro maggiore Warren inizia a sospettare e indagare: lo spettatore viene messo nella stessa condizione dei personaggi, per cui non sa di chi fidarsi e non ha una figura eroica in cui identificarsi – anche coloro che si riveleranno essere i “buoni” sono alla fin dei conti dei “bastardi” sadici. La narrazione procede con una cadenza tipicamente tarantiniana, tipica soprattutto del Tarantino più maturo, quello di Bastardi senza gloria e di Django unchained (che secondo chi scrive sono le opere più riuscite della sua nutrita filmografia insieme al nostro film): un modo di raccontare in cui la tensione cresce man mano, i dialoghi scavano nella psicologia dei personaggi, i rapporti si fanno sempre più tesi fino ad esplodere in un crescendo di violenza. Se i primi 100 minuti circa sono più all’insegna della costruzione dell’atmosfera, a partire dall’improvvisa e crudele morte di Kurt Russell e James Parks la violenza deflagra in un climax ascendente di sangue e violenza. Tutti i film di Quentin hanno un certo coté horror, per la messa in scena esasperata della crudeltà, ma in The hateful eight questo dato è ancora più evidente, visto che le sparatorie diventano un vero e proprio massacro con profusione di sangue e dettagli gore/splatter che riprendono il cosiddetto grindhouse americano e l’horror anni Ottanta, grazie agli effetti speciali di Greg Nicotero e Howard Berger. Sul Boia e O.B. fa effetto il terribile veleno messo da mano ignota nel caffè, che fa vomitare sangue in una serie di impressionanti e iperrealistici geyser, e da qui in poi il film conosce una decisa impennata di ritmo fino alla fine dei 167 minuti, in un’escalation mozzafiato di giochi al massacro. Lo stile in crescendo di azione e violenza ricorda il meccanismo presente in molti film di Sam Peckinpah, forse il più grande innovatore del genere western: come si diceva, il ralenti e i dettagli sugli schizzi di sangue ricordano la lezione del maestro (assorbita anche da Castellari, perenne fonte di ispirazione per Tarantino). Ecco quindi l’inaspettato sparo dal basso che mutila il maggiore Warren nei genitali, con una conseguente sparatoria in due fasi con protagonisti Jackson, Goggins, Roth, Madsen e un misterioso personaggio rimasto finora nascosto (l’attore Channing Tatum), scene a cui il ralenti conferisce una particolare enfasi. Il regista sembra citare più volte anche se stesso: non solo il gangster-movie Le iene, con cui condivide il “tutti contro tutti” e la presenza di Tim Roth e Michael Madsen, ma anche Django unchained, dove la lunga sparatoria inizia quando meno te lo aspetti e prosegue tra accelerazioni e ralenti. La violenza procede a livelli volutamente esasperati, con i colpi di pistola che flagellano i corpi, ma anche arti mozzati e teste spaccate; da notare pure il sadismo (ai limiti del tollerabile) presente nell’impiccagione di Jennifer Jason-Leigh per mano di Goggins e Jackson, ripresa nei minimi dettagli sotto gli occhi divertiti dei due uomini, divenuti ormai selvaggi come i banditi. Da antologia anche il precedente duello di Jackson col sudista Bruce Dern e i due flashback – la tortura nella neve di un giovane costretto a spogliarsi nudo e a praticare sesso orale (simulato, ovviamente) al maggiore Warren, e la strage nel trading-post (dove troviamo anche l’attrice Zoë Bell, protagonista di A prova di morte): tanto allucinato e surreale il primo (quasi “alla Jodorowsky”), quanto leoniano e violento il secondo.

C’è infine un aspetto che vale la pena sottolineare: la presenza ricorrente di racconti dei quali non si chiarisce mai la reale (in senso filmico) veridicità. In primis, la lettera di Lincoln, che viene poi sbugiardata dallo stesso Warren ma mantiene un afflato leggendario; poi l’uccisione dell’uomo nudo nella neve (sarà successa davvero o è un’invenzione del bounty-killer?) e la presenza dichiarata da Daisy Domergue di altri fuorilegge pronti ad assalire la stazione di servizio, una banda di cui non sapremo mai la reale esistenza. The hateful eight è dunque basato in buona parte sulla menzogna (o presunta tale), sulle voci e leggende che caratterizzano l’epica del West e del western: come John Ford fa dire a uno dei personaggi nel suo capolavoro L’uomo che uccise Liberty Valance, “Qui siamo nel West, dove se la leggenda incontra la realtà, vince la leggenda”.

La colonna sonora

Curiosamente, la colonna sonora non è uno fra i punti forti di The hateful eight: il che è molto strano, visto che tutti i film di Tarantino – pensiamo anche solo a Django unchained – sono basati in buona parte proprio sulle musiche, spesso recuperate da quei film del passato molto amati dal regista. Non che sia brutta, perché nel complesso funziona bene, ma soffre di un difetto opposto rispetto a quello che si trova ogni tanto nei film di altri registi: se altrove è troppo invasiva e quasi fastidiosa, qui è troppo minimalista, poco presente e poco memorabile (mentre negli altri film Tarantino aveva sempre trovato il giusto equilibrio fra i due estremi), anche se non mancano punte di genialità. Parte della colonna sonora di The hateful eight è realizzata da Ennio Morricone: realizza ex novo alcuni brani d’atmosfera e al contempo recupera due pezzi da lui realizzati per gli horror La cosa di John Carpenter e L’esorcista II – L’eretico di John Boorman. Dal secondo riprende il Regan’s Theme, insolitamente epico e malinconico per un film horror, e che qui funziona benissimo per la scena della diligenza che viaggia al ralenti nella neve; dal primo utilizza invece brani particolarmente tesi e finalizzati alla costruzione della suspense. Notiamo poi la presenza incredibile del canto natalizio Astro del ciel (solo strumentale) suonato da Bob il messicano al pianoforte in accompagnamento del duello fra Warren e il generale sudista, con l’espediente della musica a contrasto. Interessanti anche alcuni brani dal sapore western come Jim Jones at botany bay (cantata da Jennifer Jason-Leigh), e Now you’re all alone del compianto attore David Hess.

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