Mi chiamo Aram e sono Italiano: intervista all’attore Aram Kian

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L’attore Aram Kian ci racconta in un’intervista tutti i retroscena sull’origine dello spettacolo e le difficoltà di chi come lui, immigrato di seconda generazione, deve battersi per combattere i pregiudizi di una società che ha ancora molto da imparare sul multiculturalismo.

Come è nato il testo teatrale “Mi chiamo Aram e sono italiano”?

Il testo è nato da un incontro tra me e il regista Gabriele Vacis. Ci siamo conosciuti anni fa alla Civica Scuola d’ arte drammatica Paolo Grassi di Milano, e tra noi è subito scattata una simpatia reciproca. Dopo il diploma conseguito all’Accademia nel 1996 ci siamo persi di vista per qualche anno, per rincontrarci poi nel periodo in cui ci sono stati gli attentati alla metropolitana di Londra e di Madrid. In quel periodo Vacis venne a vedere un mio spettacolo e cominciammo una discussione relativa proprio ai fatti di cronaca di quei giorni e alle mie origini. Io infatti appartenevo a quegli immigrati di seconda generazione nati i Italia e Vacis mi interrogò sul rapporto con mio padre e di come vivevamo la comunità in cui ci trovavamo. Da lì nacque l’idea di scrivere questo spettacolo e abbiamo cominciato questa grande avventura scrivendo insieme il testo.

Quanto di autobiografico c’è nel testo teatrale?

All’interno vi si possono trovare episodi della mia vita personale e quindi c’è molto di autobiografico in essa. Anche il nome del protagonista abbiamo deciso di lasciarlo uguale al mio, all’attore che lo interpreta, proprio perché l’attore è anche personaggio e nel mio caso ciò era ancor più evidente visto le tematiche trattate. Partendo da qui abbiamo anche un po’ romanzato la storia, la quale è stata strutturata in modo tale che ognuno potesse riconoscersi in essa. Vengono descritti anche molti episodi di una vita ordinaria ma sempre legati al fatto di appartenere al gruppo di quegli immigrati di seconda generazione che molto spesso faticano ad essere accettati all’interno della nuova comunità pur essendo nati in Italia. A questo punto viene posto in essere una scelta da fare: la prima è quella dell’odio e della diffidenza, mentre la seconda è quella dell’integrazione, che è stata anche la mia scelta personale oltre che quella del personaggio che andrò ad interpretare. Sono proprio le relazioni e gli incontri che salvano Aram dall’ isolamento e dai pregiudizi.

Qual è secondo te la difficoltà maggiore che può incontrare un immigrato di seconda generazione nel paese in cui vive, in questo caso in Italia?

Secondo me le difficoltà maggiori che si possono incontrare sono il pregiudizio e la chiusura degli altri, allora l’unico modo per far cambiare idea a chi ci circonda è quella di aprirsi, di intrecciare relazioni e non chiudersi nelle proprie debolezze e fragilità.

Cosa bisognerebbe fare secondo te per migliorare l’integrazione? Su che cosa bisognerebbe lavorare?
Sicuramente sull’accoglienza. Ribadisco che fondamentale è l’incontro con l’altro, non lo scontro, anche perché è l’unico modo per far comprendere all’altro che non si è nemico e ostile nei suoi confronti. Pur essendo figlio di immigrati anche io condivido gran parte della cultura italiana, proprio perché essendo nato in Italia mi sento anche io italiano pur avendo genitori stranieri.

Quali sono i tuoi prossimi progetti su cui stai lavorando?
Al momento sto lavorando su un testo di Vincenzo Manna intitolato “Cani”, che affronta insieme ad altre tematiche anche quella sulla guerra. Altro lavoro per il cinema a cui sto collaborando è invece “Riccardo va all’ inferno” di Roberta Torre, una rivisitazione del Riccardo III di Shakespeare.

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