Simone Scafidi, filmmaker lombardo di robusta formazione cinematografica e culturale, è espressione della parte più genuina del cinema indipendente italiano: quello di alto livello, fatto come si deve, con budget limitati ma tante idee e tanta tecnica. Dopo alcuni mediometraggi, Scafidi esordisce nel lungometraggio con Gli arcangeli (2007), prosegue con la docu-fiction Appunti per la distruzione (2009) e La festa (2013), infine dirige quello che è probabilmente il suo film più compiuto e che segna la sua piena maturazione artistica: Eva Braun (2015), una geniale e controversa opera che ha scosso la critica italiana e internazionale, realizzata con un budget relativamente più alto rispetto alle precedenti, venduta in Paesi di tutto il mondo e disponibile in varie edizioni Homevideo.
Il regista è impregnato di una vasta cultura, cinematografica e non solo: nei suoi film troviamo echi da Pier Paolo Pasolini (Salò innanzitutto, ma anche Teorema nell’immagine ricorrente dell’uomo che corre urlando verso lo schermo), Robert Bresson, Alberto Cavallone, maestri della letteratura come Dostoevskij, Artaud, Bataille e De Sade accanto a scrittori moderni come Bret Easton-Ellis. Dunque, un’ispirazione di marca surrealista e grottesca, come possiamo notare in tutti i suoi film: un surrealismo che si affianca a scene crudeli di ispirazione pasoliniana e sadiana, mai fini a se stesse ma funzionali alla rappresentazione dell’Uomo, della natura umana nei suoi lati più meschini e sofferenti. Surrealismo e realtà si sposano in modo compiuto proprio in Eva Braun, che possiamo considerare come la terza parte di un’ideale trilogia insieme a Gli arcangeli e Appunti per la distruzione. Eva Braun (la donna di Hitler, con riferimento al compromesso tra sesso e potere) è ispirato dichiaratamente agli scandali sessuali dell’Italia di oggi: il bersaglio – velato ma neanche troppo – sono le vicende di Silvio Berlusconi, del “Bunga-Bunga” e delle “Olgettine”, a sua volta metafora di un’Italia dove la meritocrazia non conta ed è solo la mercificazione del corpo a consentire il successo personale.
La storia, scritta dallo stesso Scafidi, è ambientata in un non-luogo (un posto qualsiasi) dell’Italia di oggi. Pier (Andrea De Onestis) è un ricco uomo politico, elegante, colto e raffinato ma pieno di bizzarre perversioni sessuali: per soddisfarle, incarica la sua segretaria e mistress Romy (Susanna Giaroli) di reclutare giovani donne da condurre nella sua villa. Quattro ragazze e un ragazzo, ciascuno con un’aspirante carriera artistica da realizzare, vengono scelti e portati consenzienti al suo cospetto in cambio della promessa di soldi e una raccomandazione. Sono Sara, che sogna di dirigere un film; Bea, aspirante scrittrice; Marta, giornalista di sinistra; Elisa, ex insegnante piena di debiti che vende smart-box; Matteo, aspirante cantante figlio di Elisa e fidanzato di Marta. I pomeriggi alla villa trascorrono fra giochi erotici di gruppo, perversioni e umiliazioni, fino a quando la fuga della gelosa Romy e la malattia di Pier conducono a un esito imprevisto.
Il cinema di Scafidi non è mai classificabile in un preciso genere, è puro cinema d’autore: Eva Braun mescola dramma, denuncia sociale, erotismo, surrealismo, un pizzico di commedia, il tutto fuso in un unicum di grande potenza visiva e narrativa. Come si diceva, il bersaglio è l’Italia degli scandali politico-sessuali, ma non è un film su Berlusconi, e non si tratta di pudicizia o auto-censura bensì di una precisa scelta poetico-stilistica perfettamente in linea coi canoni di Scafidi. Un autore che re-interpreta sempre la realtà, non scende a compromessi, fa un cinema libero, anarchico e “scomodo”, in cui realtà e immaginario artistico si fondono indissolubilmente.
Nel film è dominante la location della “casa dei giochi”, squisitamente scafidiana: una stanza spoglia, dai muri giallastri, un’ambiente che sembra aver conosciuto tempi migliori e in cui il vecchio lusso lascia spazio alla decadenza: che è poi la decadenza “dannunziana” di Pier e di tutti i personaggi che vengono coinvolti nelle sue perversioni, in una sorta di spleen baudelairiano. Ambienti simili li abbiamo visti anche ne Gli arcangeli e Appunti per la distruzione; qui non c’è la violenza estrema di Appunti, ma una serie di quadri visivi a sfondo erotico-sadomasochista che creano una sensazione di disagio, squallore e persino angoscia. Impossibile non pensare alla schiavitù e alla disumanizzazione di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini e alle opere di De Sade (esplicite fonti di ispirazione per il regista). Eva Braun è scritto e diretto in modo volutamente non lineare, ma attraverso “tableaux vivants” che si alternano senza soluzione di continuità ai flashback narranti la vita e il reclutamento delle ragazze e a varie scene oniriche: singolare la struttura narrativa, che alterna in modo paratattico scene al presente e flashback sul passato, disorientando lo spettatore e costringendolo ad essere parte attiva nella ricostruzione dell’intreccio.
La componente erotico-sessuale è molto spinta, pur se deformata dalla lente grottesca, paradossale e persino umoristica in certi momenti. L’estetica raffinata e decadente, ottenuta anche grazie alle suggestive scenografie e alla fotografia “morbida”, calda e avvolgente, produce dei quadri visivi che sembrano richiamare gli ultimi film di Luchino Visconti, i film “decamerotici” di Pasolini e i nudi artistici di Walerian Borowczyk, mentre la meravigliosa sequenza onirica dell’orgia di gruppo virata in bluette è stata girata – spiega Scafidi – ispirandosi volutamente a una scena presente in Zelda di Cavallone. L’erotismo in Eva Braun non è mai qualcosa di sincero, ma sempre un elemento sporco, morboso, in odore di sottomissione e prevaricazione dell’individuo – paradossalmente, è proprio la mistress Romy l’unica ad amare veramente il viscido Pier, sul quale si stende in più scene un velo di tristezza e solitudine che lo rende più umano. L’estro di Scafidi si esplica in una serie di immagini molto realistiche, a volte persino estreme, ma al contempo con un voluto retrogusto grottesco: la sublimazione dell’atto sessuale in qualcosa d’altro è una costante del film, quasi una metafora di una certa “impotenza” di cui soffre Pier, spesso ripreso in situazioni da voyeur più che da partecipante in prima persona.
Decisamente forte anche la conclusione, con un Pier sempre più disfatto mentalmente e fisicamente che schiavizza il quintetto legandoli per terra e dipingendo sulla schiena di Marta una falce e martello – esplicita quindi la connotazione politica fascistoide del protagonista. Ma Eva Braun, così come non è un film su Berlusconi, non è neanche un film sul fascismo o sul comunismo: è un’opera che rappresenta le più bieche e meschine perversioni dell’animo umano e le derive disastrose del Potere, incarnato nel folle e superomista personaggio di Pier. Non mancano comunque precisi riferimenti alla realtà, dal personaggio di Romy (ispirato a Nicole Minetti) a varie frasi tratte dalle intercettazioni sugli scandali sessuali italiani, come apprendiamo dal regista.
Interpretato magistralmente da un sempre intenso ed espressivo Andrea De Onestis, attore-feticcio di Scafidi, Pier richiama il protagonista di Appunti per la distruzione, in una follia quasi nietzschiana e bizzarro anche esteticamente, con occhiali colorati, capelli laccati e vestiti eleganti alternati ad accappatoi sgargianti. Da notare anche la certosina costruzione degli altri personaggi, che – grazie ai bravissimi interpreti di scuola teatrale – diventano autentiche persone: e il clima che si respira è tanto più inquietante perché i ragazzi che si vendono al Potere sono gente comune, individui in un certo senso “vicini” a noi. Ricchi e variegati sono i dialoghi, in cui si alternano citazioni colte cinematografiche e letterarie a momenti assurdi un po’ sullo stile del Beckett di Aspettando Godot: frasi volutamente vuote, momenti in cui si parla del nulla.
Altrettanto raffinata e calda è la colonna sonora, composta per la maggior parte da brani di musica classica che creano un impasto sonoro altisonante e malinconico.