“Se parli muori, se non parli muori, allora parla e muori.”
(Souad Sbai – Le ombre di Algeri)
Molto prima delle bombe dell’11 settembre, dello studio di nuove teorie complottiste occidentali, asiatiche, africane, molto prima del terrorismo radicato, definito di matrice islamica ma che è terrorismo e basta, ci fu e tuttora esiste la questione algerina.
Un brutto passaggio storico fatto di guerra civile, saccheggi, morti ammazzati, rapimenti, stupri, rapine e commercio di stupefacenti. Un brutto affare politico alimentato dall’indifferenza europea, sostenuto dai poteri economici internazionali, interessante per la malavita organizzata di ogni nazione.
Nessun partito europeo in quegli anni esprimeva una propria reprimenda per la situazione algerina. Il muro in Europa era caduto da poco, in Russia Elstin e Putin erano gli astri emergenti della politica, in Albania si aprivano le frontiere e partivano le prime carrette del mare, in Jugoslavia esplodeva l’odio etnico soffocato nei decenni della “dittatura democratica” di Tito, e in Iraq Saddam Hussein gassava curdi e invadeva il Kuwait che si difendeva a “colpi di carte di credito” (cit.).
Accadevano tante cose in quegli anni eppure, su tutte, solo ed esclusivamente il Kuwait divenne importante.
Tutti spararono negli anni novanta. Fu un tutti contro tutti: cattolici e ortodossi contro islamici, islamici contro ebrei, islamici contro islamici, americani contro tutti. In Algeria, in un contesto di scuola della dittatura, si assistette a rapimenti di donne, stragi di mussulmani, inasprimento della situazione politica e dell’estremismo islamico.
FIS, MIA, GIA, AIS, GSPC e altre sigle, divennero d’uso comune, presto ci si abituò e si divenne disinteressatamente sordi al sentirle. Tutte partirono dal Fronte Islamico di Salvezza, il partito internamente “interessato” (termine non propriamente corretto) alla shari’a, passarono per un gruppo di resistenza “partigiana” quale il Movimento Islamico Armato, e arrivarono al terrorismo di Al-qaida. Tutto in dieci anni, tutto nell’indifferenza del mondo.
“Erano i francesi, dopotutto, che avevano insegnato agli algerini che le elezioni si potevano manipolare.”
(Robert Fisk – Cronache mediorentiali)
Tra le cinque sigle quella che emerse nella storia della guerra civile algerina fu il GIA – Gruppo Islamico Armato, che portò le proprie estensioni anche in Italia, precisamente a Napoli, dove nel ’95 due sicari marsigliesi di origine algerina uccisero Aissa Chebab, che precedentemente uccise Rouhani Nabil. Entrambi algerini, entrambi membri dei gruppi armati, entrambi a Napoli per interessi derivati dai traffici di droga e armi. Tutto sempre nell’indifferenza della politica internazionale, addormentata dagli inestimabili ricavi economici, che sulla situazione (esplosiva) algerina non fece nessun richiamo alla Francia di Mitterand e Chirach.
“La Francia voleva evitare una catastrofe islamica sulla sponda meridionale del Mediterraneo. Gli americano non volevano un’altra rivoluzione stile Iran. Chiuso il capitolo democrazia.”
(Robert Fisk – Cronache mediorentiali)
Quella del silenzio fu una scelta politica mondiale, nessuno chiese spiegazioni per le armi vendute all’esercito, ai terroristi, per il traffico di tutto ciò che poteva essere utile all’economia francese.
Nessuno chiese perché tutti avevano qualcosa da nascondere: Cecenia, Somalia, Jugoslavia, Iraq, Algeria, Tibet, e tanto altro ancora.
In questo silenzio morirono civili moderati, giornalisti, si fecero attentati a Parigi, si passò a fil di lama la gioventù algerina, si mutilarono famiglie e si portò la situazione ad una deriva autoritaria; soprattutto, l’Algeria divenne il punto di ritrovo di ex-combattenti, che trovarono una nuova partita da giocare per i loro ideali, nuove vite da spezzare e un nuovo fronte da seguire: quello salafita.
La storia ci porta vorticosamente agli anni della “primavera araba” in Siria dove, nell’indifferenza di tutti, la società civile per due anni ha chiesto libertà, elezioni, laicità, futuro ed a trovato bombe, integralismo, fanatismo e l’IS.
È sparita una consonante, è diventato un califfato, ma a me ricorda tanto una deviazione malata di quel FIS algerino che vinse le elezioni nel ’91, fermato da un regime militare che non rappresentava nessuno e che temeva modifiche alla Costituzione del primo paese africano per estensione, propagandando (aiutato inconsapevolmente dagli integralismi interni del FIS) una deriva verso l’integralismo religioso.
Non stava accadendo, non fu quello che il popolo elettore aveva indicato e forse non sarebbe accaduto. Fu un processo di democratizzazione che venne bruscamente interrotto. La storia è fatta anche di nomi ma sono i popoli a determinarla. In quell’occasione intervennero fattori umani, i nomi divennero sigle e il popolo avrebbe dovuto essere spaventato, non avrebbe potuto scegliere liberamente, perché il risultato non sarebbe stato quello giusto, quello adatto alla società, nonostante fosse da essa determinato.
Un’ipotesi che portò alla messa al bando e persecuzione di un intero partito e relativa area elettorale, che tracimò inevitabilmente in un golpe militare. La scelta degli algerini fu influenzata da chi temeva di perdere il proprio potere economico, come in Mali e Siria, dove Assad, inviso al popolo siriano, è tenuto al potere da altri.
Foto recuperate da archivi internet