Anima persa (1977) di Dino Risi, cupo e struggente dramma psicanalitico

Intorno al film

Il maestro Dino Risi è stato in grado, come pochi altri registi, di ritrarre la società italiana e i mutamenti che l’hanno attraversata – dagli anni Cinquanta ai primi Ottanta – attraverso sia la commedia che il dramma di denuncia. Nella sua lunga carriera ha affrontato anche un genere diverso in due occasioni, spostando l’attenzione dall’aspetto sociologico a quello psicologico, esistenziale, romantico: nascono così i due meravigliosi film Anima persa (1977) e Fantasma d’amore (1981), dove il dramma è combinato a meraviglia con elementi giallo/gotici; due affreschi malinconici e struggenti purtroppo spesso dimenticati dalla critica e meritevoli invece di figurare fra i migliori film di Risi e del cinema italiano.

animapersa

La vicenda

Il giovane Tino (Danilo Mattei), trasferitosi a Venezia per studiare pittura, è ospite dell’austero zio Fabio Stolz (Vittorio Gassman) e della moglie Elisa (Catherine Deneuve). Dopo aver sentito dei passi al piano di sopra, il ragazzo scopre dall’anziana domestica che in soffitta è rinchiuso il fratello pazzo dello zio: in casa nessuno sembra volerne parlarne, e solo Fabio può entrare nella “stanza segreta” per prendersi cura dello sventurato. Nella casa si respira un’atmosfera pesante e decadente, con la zia completamente succube del severo marito. Il mistero si infittisce quando Tino scopre che la piccola Beba, figlia di primo letto di Elisa, è morta anni prima, e i due coniugi si incolpano l’un l’altro. Scoprirà una verità sconvolgente che lo indurrà a lasciare Venezia.

Narrazione e stile

Tratto dall’omonimo romanzo di Giovanni Arpino, Anima persa va definito senza mezzi termini un capolavoro: decadente, quasi viscontiano in certi momenti, triste e inquietante, un’opera che avvolge lo spettatore in un’atmosfera assolutamente unica – grazie a una regia e una sceneggiatura (Risi e Zapponi) perfette, alle suggestive location (una Venezia misteriosa e gli interni barocchi) e ai due grandiosi protagonisti Gassman e Deneuve.

Risi mette in primo piano l’analisi psicologica (e psicanalitica) dei personaggi, costruendo una storia robusta e ricca di temi complessi: un amore morboso, lo scorrere inesorabile del tempo, l’irrealizzabile volontà di fermarlo, la schizofrenia. Basterebbe già l’incipit per rendere un’idea dell’atmosfera, pur se difficile da spiegare a parole: le inquadrature notturne di Venezia che scorrono sulle malinconiche musiche di Francis Lai e che accompagnano l’arrivo di Tino, fra antichi palazzi e scorci di interni illuminati dove covano chissà quali drammi e segreti (“i signori non si fanno mai vedere”, dice il guidatore della barca). Venezia, che viene poi descritta da Gassman come “una vecchia signora dall’alito cattivo”, è decadente e misteriosa come poche altre volte – pensiamo al capolavoro Morte a Venezia di Luchino Visconti, ad esempio. Il trascorrere del tempo e la corruzione del passato, che è il leit-motiv di questa famiglia disfunzionale, si ripercuote anche sulla città, specchio dei protagonisti: accanto ai palazzi storici convivono rifiuti sparsi in acqua, e la tradizione culturale risente inevitabilmente dei nuovi tempi – vedasi gli studenti hippie che contestano l’insegnante di pittura. Fra gli esterni veneziani, ritratti magistralmente dal direttore della fotografia Tonino Delli Colli, prevalgono i toni gotici e sepolcrali: una fra la città più affascinanti al mondo viene utilizzata nel migliore dei modi, fra grandi palazzi, piazze e calli avvolte nella nebbia, il cimitero, il manicomio. Lo stesso dicasi per la ricostruzione degli interni, con gli ampi e antichi saloni trasudanti una vecchia nobiltà decaduta, il teatro in rovina, le stanze segrete con bambole e ninnoli – testimonianze di una giovinezza irrimediabilmente persa.

Anima persa è un film d’autore arricchito dalla presenza di elementi gialli – prima il mistero della soffitta, poi la presenza che suona il piano, infine la morte della bambina – dove indagine esistenziale e tensione vanno di pari passo fino a convogliare nella sconcertante conclusione, tanto inquietante quanto struggente. Parafrasando il film di Tonino Cervi, possiamo definirlo anche un “ritratto di borghesia in nero”: il colto e severissimo zio Fabio rappresenta la deriva dell’alta società, una nobiltà alla cui scomparsa non vuole rassegnarsi, e anche la zia Elisa – costantemente affetta da turbe nervose – vive nella costante paura della vecchiaia e nell’ossessivo ricordo di un passato che non c’è più e non potrà tornare (magnificamente concretizzato nella vecchia stanza adiacente al teatro, custode dei giocattoli e quaderni della piccola Beba). L’occhio sociologico di Risi emerge anche in un film singolare come questo, dove l’apparente quiete borghese viene sviscerata nei suoi aspetti più oscuri, fra malsane pulsioni freudiane e una vita di coppia senza dialogo: in un’atmosfera quasi dannunziana, convivono l’incomunicabilità di Antonioni, le saghe drammatiche di Visconti e l’elemento giallo; il tutto filtrato da un nuovo sguardo e da uno stile raffinatissimo, che sembra uscito da un quadro o da un vecchio libro.

Il geniale Vittorio Gassman giganteggia, regalando un’interpretazione memorabile nel doppio ruolo dello zio e del fratello pazzo. In grado come sempre di comunicare anche solo con uno sguardo, mette soggezione all’ingenuo nipote Tino (ma anche allo spettatore) in entrambe le vesti: sia il borghese ingegnere Stolz, possessivo despota, sia il povero infermo che vediamo in espressioni deliranti attraverso lo spioncino della porta. La teatralità esibita – nella mimica facciale, nei gesti e nel linguaggio forbito tipici di Gassman – non risulta mai oltre le righe, ma realistica e “carnale” nel dare vita a un personaggio che sembra “uscire” dallo schermo. Altrettanto grandiosa è Catherine Deneuve, una fra le icone della bellezza nel cinema classico: figura commovente, completamente sottomessa al marito e incapace di ribellarsi, trova una piena sintonia fra il suo aspetto efebico e le crisi nervose a cui è soggetta. Pur dovendo confrontarsi con due giganti come loro, il giovane attore Danilo Mattei – che troveremo in vari film “di genere” del decennio successivo – interpreta bene il ruolo di Tino, ragazzo timido e succube degli eventi, supportato nella vicenda da una compagna di scuola (Anicée Alvina) che lo aiuta nella difficile situazione.

La colonna sonora

All’atmosfera suggestiva di Anima persa contribuisce in maniera sostanziale la meravigliosa e ammaliante colonna sonora di Francis Lai. Un superbo OST che fa da leit-motiv lungo tutto il film, a partire dalla prima inquadratura sui titoli di testa, di volta in volta modulata secondo tonalità più gravi o più leggere: una melodia dolce, malinconica e non priva di una certa inquietudine, composta da note acute che si allargano man mano in una musica di ampio respiro e dal sapore barocco, quasi una musica da camera ottocentesca, perfetta espressione dell’atmosfera cupa e malinconica che domina la vicenda. Il brano ritorna innumerevoli volte nel corso di Anima persa, in funzione sia extradiegetica (cioè “esterna” al film, come nella prima sequenza) sia intradiegetica (cioè “interna”, suonata da uno dei protagonisti: la misteriosa presenza che suona il pianoforte). Le inquadrature sulla porta che conduce alla soffitta sono invece accompagnate da accordi più stridenti atti ad esprimere la tensione e il mistero.

Davide Comotti

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