Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino.

Intorno al film

L’enorme successo dell’ultimo capolavoro di Quentin Tarantino, Django Unchained (2014) ha condotto in più occasioni critica e pubblico a confrontarlo con il suo precedente lavoro, quel Bastardi senza gloria (2009) che tanto ha fatto parlare di sé – come tutti i suoi film, del resto.

Con Inglorious basterds (titolo originale), Tarantino realizza un robusto, lirico e crudele war-movie che intende omaggiare un cult del genere, l’italiano Quel maledetto treno blindato (1978) di Enzo G. Castellari, uno dei film preferiti dal regista americano (che, come è noto, nutre una particolare ammirazione per il nostro cinema).

Tarantino decide di compiere un passo molto impegnativo, perché un conto è dirigere action-movie a base di gangster e kung-fu, un altro è costruire una vicenda che sia storicamente credibile: se dal punto di vista emotivo e spettacolare Quentin realizza un film grandioso, da quello storico prende invece una piega controversa, di cui si parlerà in seguito.

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La vicenda

1944. Nella Germania occupata dai nazisti agisce un gruppo segreto di soldati noti come “i bastardi”, con l’unico obiettivo di uccidere i tedeschi: al comando del tenente americano Aldo Raine (Brad Pitt), compiono feroci incursioni senza alcuna regola, collezionando gli scalpi delle vittime.

Nel frattempo, i vertici del Terzo Reich preparano una serata celebrativa all’interno di una sala cinematografica: il comando della sicurezza è affidato al crudele colonnello delle SS Hans Landa (Christoph Waltz), che tre anni prima aveva sterminato la famiglia della giovane ebrea Shosanna, ora proprietaria del cinema con una nuova identità. I “bastardi” ricevono l’incarico di eseguire un attentato durante il grande evento, e la loro strada si incontra con quella di Shosanna, che a sua volta vuole approfittare della serata per compiere la vendetta.

Narrazione e stile

Il fatto che Bastardi senza gloria sia un film di guerra molto sui generis e rivisitato dallo sguardo rivoluzionario di Tarantino si capisce fin da subito, quando vediamo che il film è suddiviso in capitoli (struttura tipica della sua cinematografia) e assistiamo a una lunga e appassionante sequenza dal sapore western.

Come si fa a inserire il tono lirico del vecchio West in un contesto così diverso e drammatico? Tarantino prende a modello una delle più celebri sequenze del leoniano C’era una volta il West, cioè il massacro della famiglia di contadini, e ne richiama le atmosfere per mettere in scena la strage compiuta da Landa su una famiglia ebrea.

L’atmosfera, il ritmo lento e cadenzato, nonché il paesaggio quasi da prateria creano un clima straniante e terribilmente efficace: il che è una delle cifre stilistiche primarie del film, l’utilizzo delle tanto amate citazioni per mettere in scena qualcosa di nuovo, che omaggia il cinema del passato ma al contempo crea un’opera totalmente nuova e impossibile da rinchiudere in un unico stile.

Inglorious basterds è un film profondamente tarantiniano, e la mano del grande regista è inconfondibile: rispetto a opere “minori” come Jackie Brown e A prova di morte, il film di cui parliamo contiene tutta l’essenza del suo stile registico, dunque citazioni (meta)cinematografiche a volontà, utilizzo di split-screen e scritte in sovraimpressione sui nomi dei personaggi (in salsa “fumetto pulp”), esplosioni di violenza, lunghissimi dialoghi, suddivisione in capitoli, flashback, un pizzico di ironia e personaggi caratterizzati in maniera robusta.

Se il modello è Quel maledetto treno blindato di Castellari (il cui titolo negli USA è Inglorious bastards), va detto però che c’è ben poco in comune con l’originale: chi si avvicina a questo particolarissimo film di guerra non si aspetti dunque un remake, visto che solo alcuni elementi vengono ripresi (i soldati “irregolari” che vengono arruolati per una missione speciale), ma una vicenda completamente nuova che omaggia il war-movie italiano per prendere poi una strada completamente diversa e personale. Cosa che, del resto, Tarantino ha sempre fatto, a partire da Le iene fino a Django Unchained, un capolavoro che però ha poco a che vedere con il Django di Sergio Corbucci che ha ispirato il regista.

Bastardi senza gloria, per essere un war-movie, non contiene molte scene d’azione – poche ma buone, vien da dire. Memorabile la crudele e frenetica sparatoria nella taverna (con il conseguente mexican standoff), epico ed esplosivo il finale all’interno del teatro, climax di un percorso narrativo costruito meticolosamente.

Tarantino scrive una sceneggiatura appassionante e sviluppata minuziosamente: suddivide il film in capitoli (ciascuno dei quali affronta una parte della storia) e in flashback, punta molto sull’alternanza fra i vari protagonisti della storia, che vivono in contesti differenti per poi incontrarsi alla fine, e crea così blocchi narrativi che si alternano lungo tutti i 146 minuti.

Sempre notevoli le scene di violenza, a partire dalla strage iniziale fino agli assalti dei “bastardi” (con tanto di dettagli sugli scalpi e le ferite): sangue, violenza e vendetta sono elementi immancabili nella sua cinematografia. Protagonista è un Brad Pitt più in forma che mai (indimenticabili i duetti con Waltz e il discorso durante l’arruolamento dei soldati), ma la performance che rimane più impressa è quella di Christoph Waltz nel ruolo del colonnello Landa.

Il grande attore austriaco si aggiudica infatti un Oscar come miglior attore non protagonista (che replicherà in Django Unchained), in grado di regalare al crudele ufficiale incredibili sfumature di eleganza e ironia, grazie al suo parlare forbito e ricco di perifrasi, alternate a momenti di insistito sadismo.

Le bellissime Diane Kruger e Mélanie Laurent sono rispettivamente l’agente segreto Von Hammersmark e Shosanna, entrambe fondamentali nella costruzione della storia. Notevoli anche i co-protagonisti, il regista horror Eli Roth (spesso gravitante nella factory di Tarantino), il celebre Michael Fassbender, Til Schweiger, Gedeon Burkhard e Daniel Brϋhl: tutti volti e caratteri giusti, frutto di una meticolosa scelta del cast. Una peculiarità che rendono grandi i suoi film è infatti l’attenzione quasi maniacale alla costruzione fisica e psicologica dei personaggi, oltre che della sceneggiatura e dei dialoghi.

Bastardi senza gloria è ricchissimo di citazioni sia implicite (come la strage iniziale in stile western) che esplicite, sottolineate anche dall’utilizzo di una colonna sonora che recupera brani di “vecchi” film. Pensiamo ai continui riferimenti alla pellicola, intesa come oggetto materiale, all’ambientazione stessa in un cinema e ad autentiche scene meta-cinematografiche nelle quali Tarantino sembra quasi fare da narratore esterno: frasi come “è uno stallo alla messicana” durante il mexican standoff nella taverna, oppure “siamo tutti un po’ attori” durante la preparazione dell’attentato ne sono un esempio.

L’occhio cinefilo del regista emerge in modo chiaro e appassionato nei riferimenti al cinema tedesco e americano, nel personaggio che si chiama Hugo Stiglitz (nome di un attore tedesco molto in voga negli anni Settanta/Ottanta) e nel nome falso che Eli Roth assume per entrare in incognito nel teatro: Antonio Margheriti, uno dei più grandi artigiani del cinema italiano e regista particolarmente amato da Tarantino.

Da antologia alcuni squarci lirici (la morte di Soshanna al ralenti sulle note di Un ami di Morricone) e la potenza visiva dell’attentato finale, tra esplosioni e sparatorie.

Qui sta però il principale, e forse unico, difetto del film: dal punto di vista spettacolare ed emotivo è impeccabile, ma Tarantino – secondo chi scrive – stecca clamorosamente inscenando nell’attentato la morte di Hitler e di tutti i vertici del Terzo Reich. Ora, è vero che siamo in un’opera di fantasia, ma è altrettanto vero che non tutto è concesso.

Perché non siamo di fronte a personaggi immaginari come Django o la Sposa di Kill Bill: Hitler purtroppo è esistito davvero e, se sui personaggi inventati si può agire come si vuole, nessun regista può invece permettersi di mettere in scena un cambiamento della Storia con la S maiuscola: nemmeno se si chiama Tarantino.

Quando nell’ultima inquadratura Brad Pitt guarda lo sfregio eseguito su Landa prigioniero ed afferma “Questo potrebbe essere il mio capolavoro”, in realtà sembra che sia lo stesso Tarantino a parlare del suo film: ci è andato vicino, ma il vero capolavoro lo realizzerà con il successivo Django Unchained.

La colonna sonora

Vista la passione cinefila e citazionista di Tarantino, è inevitabile che anche la colonna sonora rispecchi il suo stile peculiare: come aveva già fatto nelle sue opere precedenti (e come farà in Django Unchained), il regista costruisce un universo musicale variegato, composto soprattutto da brani estratti da film di diverso genere che, pur nella loro diversità, formano un unicum omogeneo.

Il brano di apertura, sontuosa e malinconica marcia militare, è The green leaves of summer di Nick Perito, tratta dal kolossal La battaglia di Alamo. Numerosi i brani di Ennio Morricone: motivi western tratti da La resa dei conti, oppure Rabbia e tarantella (da Allònsanfan) e soprattutto lo struggente pezzo Un ami (leit-motiv di Revolver) in versione strumentale che accompagna la sequenza più lirica del film, cioè la morte di Shosanna e del soldato al ralenti.

Accanto a questi brani, troviamo musiche di David Bowie, Lalo Schifrin, Charles Bernstein e altri ancora, insomma un universo musicale insolito e maestoso che svolge una funzione fondamentale nella costruzione delle immagini e delle sequenze.

Davide Comotti

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