Con l’analisi di questo romanzo darò inizio ad un piccolo ciclo che ripercorrerà a ritroso la storia della carcerazione umana così come ci è stata raccontata da Abbott, Charrière, Pellico, Platone.
Lo farò grazie alle parole di questi scrittori e pensatori che hanno raccontato in modo autobiografico ciò che hanno conosciuto, visto, sentito, odorato, toccato.
Non sarà un viaggio d’amore, ma un viaggio dentro il ventre di una bestia che vive con noi tutti i giorni: la paura, il sentimento che per eccellenza fa scattare tutti i nostri meccanismi di difesa istintivi, portandoci ad essere dei bruti verso altri uomini, che, anche se hanno sbagliato, comunque non meritano la nostra brutalità.
L’idea di affrontarlo non mi è venuta per bisogno di riportare un’esperienza personale, ma è nata dalla voglia di dimostrare quanto attraverso una lettura attenta di ogni libro, possiamo trarre delle riflessioni importanti per la nostra vita e fare collegamenti utili all’evoluzione delle nostre società.
I quattro autori citati hanno vissuto in epoche totalmente diverse tra loro, distanti anni luce per tecnica, qualità della vita, apertura mentale, ma vicinissime e identiche per brutalità e voglia di sopraffazione. Distanze di secoli per dimostrare quanto scarsamente siamo evoluti nella gestione delle nostre paure.
Nel ventre della bestia di Jack Henry Abbott
Jack Henry Abbott fu un ragazzo incontrollabile per il sistema sociale americano, che lo punì con 19 anni di detenzione continuativa a partire dai suoi 17 anni. Abbott fu il primo a raccontarci senza nessuna poetica l’assenza di umanità nel moderno sistema giudiziario globale.
Scrisse il suo libro durante la guerra fredda, parlò all’America senza conoscere la reale portata della brutalità sovietica, denunciò la vigliaccheria di un sistema giudiziario e sociale partendo dal suo punto di vista, dal suo conosciuto, ma comunque riuscì ad esprimere sentimenti universali e descrisse un sistema di vita globale, dedito alla sottomissione della persona.
Un sistema valido in tutto il sud America fascista, nella Cuba comunista, nei paesi della cortina di ferro, nell’Europa occidentale e libera, in Cina, Giappone, nell’Oceania, in Africa e infine nel Medio Oriente, basato sull’uso della violenza per la costruzione di una società nuova, civile, spaventata.
La portata letteraria delle sue parole venne subito compresa da Norman Mailer che individuò la totale assenza di estetica, di poetica, contrapposta alla presenza di una trama genuina e avvincente che andava ben oltre il cliché delle opere biografiche, alimentata da un linguaggio che ha la capacità di parlare alla nostra paura, dimostrandoci quanto siamo inutilmente spaventati.
A parte le fragili digressioni sull’ideale comunista, costruite in un periodo in cui l’URSS era presentata da una letteratura di parte come un paradiso, mentre in realtà poteva essere anche un abisso di paura e repressione, Abbott ebbe la capacità di affrontare argomenti di ordine sociale partendo da presupposti molto chiari, nati all’interno del mondo carcerario americano, con cui dimostrò che attraverso l’annichilimento di chi opponeva una umana e fragile resistenza al sistema poliziesco in esso inserito, si stavano affinando tecniche di ordine sociale.
Un libro che anche oggi sembra visionario, ma che ebbe il merito di mettere a nudo il grande problema della giustizia americana e occidentale: con i soldi si possono ottenere dei risultati, senza soldi si è destinati alla totale sottomissione per cui “anche il più vigliacco degli agenti di custodia può denunciare un reato commesso in prigione, mentendo, e la tua carcerazione continuativa può prolungarsi per sei mesi, un anno o più.”