Valhalla Rising (2009): l’epica secondo N.W. Refn

Intorno al film

Il regista danese Nicolas Winding Refn ha il merito indiscutibile di essersi “fatto le ossa” nel cinema, iniziando con la gavetta da indipendente e riuscendo man mano a imporsi a livello internazionale – fino alla consacrazione a Cannes. È un cinema molto particolare, il suo, che può anche non piacere ma a cui va riconosciuta una grande originalità e versatilità stilistica e narrativa. Dal realismo estremo della saga Pusher al “pulp” Bronson, dall’adrenalinico e sentimentale Drive all’anti-epica di Valhalla Rising (2009), quest’ultimo sicuramente il suo film più singolare in quanto si estranea dal consueto genere noir per spostarsi sul versante avventuroso/mitologico. Non è forse la sua opera più conosciuta, ma secondo chi scrive è la più riuscita e affascinante, insieme all’irripetibile Drive: complessa, ermetica, ma visivamente potentissima e dunque assolutamente da riscoprire.

 Valhalla-Rising-Poster

La vicenda

Ai tempi delle Crociate, in un’imprecisata terra selvaggia il guerriero vikingo One-Eye (Mads Mikkelsen) è schiavo di alcuni crudeli mercanti che costringono i prigionieri a lottare fra di loro fino alla morte. Riuscito a fuggire dopo aver sterminato i suoi aguzzini, viaggia con un ragazzino suo compagno di fuga e incontra un gruppo di cristiani diretti verso la Terra Santa per combattere. Nonostante sia un barbaro, si unisce alla compagnia intraprendendo una lunga odissea: durante il viaggio sul fiume, una fitta nebbia li avvolge facendo perdere la rotta. Al loro sbarco, si trovano su una terra sconosciuta che non è la Terra Santa: fra lotte intestine e nemici invisibili, tutti sono destinati alla follia o alla morte.

Narrazione e stile

Il cinema di Refn, qualunque genere tratti, ha come carattere distintivo la narrazione degli anti-eroi e la de-mitizzazione delle leggende: nei noir scompare ogni elegia “padrinesca” e ogni enfatizzazione del mondo del crimine, che viene mostrato in tutto il suo reale squallore con un piglio quasi documentaristico e dal punto di vista dei perdenti; nell’epico Valhalla Rising è l’universo degli eroi e del mito ad essere rovesciato. Non traggano in inganno le locandine, che raffigurano One-Eye come un guerriero degno dell’antica Grecia – in certi poster è raffigurato addirittura con una schiera di soldati a palese imitazione del kolossal 300. Non sappiamo se questo scarto sia voluto o meno, ma sta di fatto che – pur trovandoci in un film ascrivibile al genere avventuroso/mitologico – Refn sovverte volutamente ogni dimensione epica, perché proprio questo è il nucleo della sua poetica cinematografica – di cui Valhalla Rising è una chiarissima esplicazione. Del poema epico, la vicenda conserva la suddivisione in capitoli (Wrath, Silent Warrior, Men of God, The Holy Land, Hell, The Sacrifice).

La sceneggiatura, scritta dal regista insieme a Roy Jacobsen, si rifà a vari modelli letterari quali l’Odissea di Omero e soprattutto il romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad – opera ispiratrice di ulteriori film a cui Refn strizza l’occhio: Apocalypse Now e le tre grandi epopee di Werner Herzog con Klaus Kinski, cioè Aguirre furore di Dio, Fitzcarraldo e Cobra Verde. Già nei suddetti film si intravede il tramonto dell’eroe, con il titanico Kinski in preda a un delirio superomista nietzschiano: ma Refn va ancora oltre, negando ogni spettacolarità narrativa e frustrando personaggi e spettatori con una lunga attesa di eventi destinati a non accadere (vengono in mente per certi versi Aspettando Godot e Il deserto dei Tartari). Se in altri film (Pusher, Bronson) Refn mette in scena dialoghi frenetici e quasi “tarantiniani”, in Valhalla Rising domina il silenzio (come farà in seguito nel ferocissimo noir Solo Dio perdona), a testimonianza di uno stile che riesce a variare pur mantenendo caratteri in comune: i dialoghi, profondi e penetranti, sono ridotti al minimo, e la regia lascia che siano le immagini a parlare. Proprio l’aspetto visivo è il più affascinante dell’opera, con inquadrature lunghe e spettacolari e una fotografia curatissima (Morten Søborg): sembra quasi che lo spettacolo, tenuto volutamente fuori dalla narrazione, rientri nell’immagine – si potrebbe parlare di un ritorno alla concezione più “pura” e primigenia del cinema. Valhalla Rising è un autentico “trip visivo”, valorizzato sia dalla mutevole fotografia che dalle splendide location naturali (il film è girato tutto in esterni), con l’effetto di un’atmosfera incredibilmente rarefatta e irreale, quasi metafisica in certi momenti: paesaggi maestosi e spesso avvolti dalla nebbia, pianure sterminate, fiumi e boschi sono ritratti di volta in volta o con colori limpidi e “naturali” oppure con toni psichedelici in prevalenza rossi (vedasi le visioni di One-Eye e la navigazione nella nebbia), bianchi e blu. Molto curati e realistici sono anche i costumi e il make-up dei personaggi, tutti rappresentati come squallidi barbari senza distinzione (fa eccezione il ragazzino, forse l’unico simbolo di innocenza in tutto questo panorama apocalittico).

Quella che potrebbe essere una storia epica, si trasforma di fatto nella celebrazione dell’anti-epica – è quasi una non-storia, potremmo dire. Un elemento che torna spesso nel film è la violenza (immancabile in ogni pellicola di Refn), a volte più sanguigna (con ottimi effetti speciali e make-up), altre volte più grafica (con schizzi di sangue in digitale ma efficaci): memorabili i cruenti scontri corpo a corpo che vediamo all’inizio fra il protagonista Mikkelsen e gli altri schiavi, oppure la vendetta del guerriero sugli aguzzini con tanto di testa infilata su un palo. Ma One-Eye non è l’eroico guerriero che ci potremmo aspettare: dotato di una connotazione quasi soprannaturale (di lui si dice che venga dall’inferno) e muto (è il ragazzino a parlare al posto suo), non compie azioni da eroe, non è un personaggio in cui lo spettatore può identificarsi o prenderne le parti, perché alla fin dei conti non si differenzia molto dagli altri barbari protagonisti. La razionalità è bandita dalla storia, lasciando il posto alla follia, alla violenza e al non-sense (in certi momenti sembra di respirare quasi un’aria surrealista). La conquista della Terra Santa (che potrebbe anche essere, o forse è, un’inconsapevole conquista dell’America) si risolve in un nulla di fatto, e il capo del piccolo esercito ormai impazzito e senza controllo decide di fondare una nuova Gerusalemme nel territorio sconosciuto dove è approdato: ma sono ormai finiti i tempi del colonnello Kurtz o di Cobra Verde, e il tutto si riduce a un delirio individuale. Refn non vuole trasmettere precisi messaggi storici: d’altra parte, non è dato sapere neanche in che terre ci troviamo e con che popoli abbiamo a che fare, e forse anche questo fa parte dell’annullamento della mitologia. Valhalla Rising può anche essere letto come una metafora della Storia (o meglio di una visione nichilista della Storia), ma l’impressione è che Refn voglia mettere in scena ciò che gli è più caro in tutta la sua cinematografia, cioè un viaggio nel “cuore di tenebra” esistenziale dell’essere umano (peccato, redenzione, sacrificio), con l’odissea di un novello Dante Alighieri in questo irriconoscibile inferno (così viene definita la terra dove approdano). Un grandissimo Mads Mikkelsen, già protagonista dei primi due Pusher e noto al grande pubblico per i ruoli di “cattivo” in 007 – Casino Royale e nella serie-tv Hannibal, domina con forza tutto il film dando vita a un personaggio memorabile: esteticamente inquietante (ha un occhio solo, da qui il soprannome), è dotato di una profondità interiore che lo configura come un essere terribilmente concreto e al contempo quasi “metafisico”, il cui viaggio compiuto nella vicenda diventa simbolo di un viaggio iniziatico interiore.

La colonna sonora

Refn possiede anche un’ottima capacità di variazione nell’utilizzo delle colonne sonore, adeguandole all’atmosfera di ciascun film. Se nel frenetico Pusher aveva commissionato musiche martellanti, e in Drive darà vita a pezzi pop memorabili, in Valhalla Rising la musica non è così evidente ma altrettanto efficace per l’opera. Composta da Peterpeter e Peter Kyed, si basa su un sound design cupo e ossessivo: non c’è un tema portante e orecchiabile che rimane impresso, ma una musica d’atmosfera dissonante e con qualche poderosa sferzata che si amalgama perfettamente alla potenza delle immagini.

Davide Comotti

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