Classici: Se sei vivo spara (1967) di Giulio Questi

Intorno al film

La tanto reiterata distinzione fra “cinema di genere” e “cinema d’autore” è stata finalmente sdoganata, con fatica, dalla critica più recente e attenta. Il regista bergamasco Giulio Questi ne è un chiaro esempio: cineasta a tutto tondo in grado di spaziare dal lungometraggio al documentario, dal cortometraggio al film televisivo, è una figura di spicco del nostro cinema, prima aiuto-regista di grossi nomi come Fellini e Germi, poi autore nel senso più autentico della parola. Tre sono i suoi lungometraggi “da solista”, tre film che prendono un genere e lo rivoluzionano sotto l’aspetto stilistico e tematico, dando vita a opere d’arte assolutamente anarchiche, espressione di un gusto del tutto personale: il surrealismo è la corrente trasversale ai suoi lavori, dal crudelissimo western Se sei vivo spara (1967) al giallo La morte ha fatto l’uovo (1968), fino al dramma grottesco/soprannaturale Arcana (1972). Se sei vivo spara è il suo film più famoso e riuscito, una pellicola d’autore che si distingue dalla massa di western italiani – pure notevoli – prodotti in quegli anni.

Se-sei-vivo-spara-cover-locandina1

La vicenda

Una banda eterogenea guidata da Oaks compie una rapina sterminando uno squadrone dell’esercito e impadronendosi del carico d’oro. Per non dividere il bottino, gli americani massacrano i complici messicani: l’unico superstite, un meticcio senza nome (Tomas Milian), viene soccorso da due indiani che lo credono tornato dalla morte, e con il loro aiuto si mette in cerca dei traditori per vendicarsi. Il gruppo nel frattempo raggiunge un villaggio sperduto nel deserto e popolato da strani abitanti, i quali – animati da un distorto senso della giustizia – linciano i banditi per impossessarsi dell’oro, che finisce nelle mani di due ricchi commercianti. Il messicano giunge in paese, regola i conti con Oaks ma si trova a sua volta coinvolto nella follia dilagante: solo contro tutti, deve fronteggiare i due rivali e un potente bandito messicano coi suoi cowboy.

Narrazione e stile

Se sei vivo spara è probabilmente uno degli western italiani più stranianti di ogni tempo – insieme ad alcune altre pellicole d’autore come lo psichedelico Matalo! di Canevari e gli (anti)lirici Django di Corbucci e Tempo di massacro di Fulci. Violenza, surrealismo e narrazione atipica sono i tratti distintivi del western di Questi, riconosciuto anche all’estero come un capolavoro: se si volesse spiegare perché “genere” e “autore” sono distinzioni di maniera quasi sempre nominali, tale film può esserne un esempio pratico e più efficace di tante parole. Se sei vivo spara è un western, certamente, nella trama e nelle ambientazioni: una banda di rapinatori, un uomo in cerca di vendetta, un villaggio nel deserto, sparatorie e lotte per il denaro. Ma è molto di più: pur trattandosi di un film su commissione, Questi e Franco Arcalli sceneggiano una vicenda del tutto originale dal punto di vista tematico e stilistico, magistralmente diretta dallo sguardo caustico del regista che sovverte tutte le regole del genere. Spiega Nocturno Cinema: “Attratti dall’idea di scrivere un film eccentrico e spiazzante, Questi e Arcalli immaginarono un western che contenesse tutto ciò che in quel momento nessuno avrebbe mai osato mettere in scena”.

Fin dall’incipit si respira l’atmosfera straniante e gotica che impregna il film: mentre scorrono i titoli di testa, vediamo la mano di Tomas Milian emergere dalla terra per poi approdare alla salvezza grazie ai due indiani che compiono su di lui riti magici. Il meticcio acquista così una valenza quasi ultraterrena, un angelo nero tornato dalla morte per compiere la sua vendetta: così almeno è visto dai due pittoreschi nativi, che gli faranno da guida in tutta la storia chiedendogli ripetutamente cosa ha visto nelle “celesti praterie”. Da notare che il personaggio di Milian non ha un nome, viene chiamato semplicemente “straniero” o “hermano”, amplificando la sua natura pseudo-metafisica. Il film inizia quindi in media res, e tocca a un flashback narrare quanto accaduto (l’agguato, il massacro): da notare lo stile allucinatorio che accompagna le prime immagini, con una luce psichedelica, inquadrature capovolte e montaggio sincopato. Tale sequenza contiene in nuce alcuni tratti distintivi dello stile anarchico del film, in cui forma e contenuto procedono di pari passo: Franco Delli Colli crea una fotografia dal gusto molto forte, quasi “in acido” in certi momenti, una luce abbacinante avvolge il villaggio e il deserto, mescolandosi coi colori saturi che mettono in risalto i volti dei personaggi e il rosso del sangue; Franco Arcalli, fedele collaboratore di Questi, monta le immagini spesso in maniera frenetica (vedasi le sparatorie) e con accostamenti di immagini densi di significato. Entrando nel villaggio (noto agli indiani come “Campo dell’Angoscia”) sembra di immergersi nel mondo di Jodorowsky, celebre regista che ha firmato il western surrealista per eccellenza, El Topo: strade deserte, figure grottesche quali bambini sadici e un moribondo che tossisce. È solo il primo passo all’interno di un mondo distorto popolato da personaggi atipici: il proprietario del saloon Templer col figlio e l’amante (Marilù Tolo) alle prese con morbosità psicanalitiche; Hagerman, padrone dell’emporio e predicatore invasato che vuole spazzare via la feccia dalle strade; l’elegante bandito messicano Sorrow (Roberto Camardiel) con la sua banda di cowboy omosessuali – per la prima volta nel western – e vestiti con identiche camicie nere decorate; ma anche tutti i volti patibolari dei paesani e dei banditi, interpretati da caratteristi più o meno noti e che con le loro facce grottesche e cotte dal sole arricchiscono questo selvaggio West a tinte fosche.

I tre citati sono i personaggi che si contenderanno il bottino insieme a Milian, ma la ricerca dell’oro – fra continue alleanze e tradimenti – diventa più che altro un pretesto per mettere in mostra la bramosia umana: Se sei vivo spara è infatti ricchissimo di sotto-testi psicologici e sociologici. Follia, avarizia, crudeltà e giustizia sommaria caratterizzano la parata di loschi individui che vediamo sullo schermo: il falso perbenismo borghese in nome del quale la folla lincia i banditi è messo in luce dall’esasperazione grottesca, ma al contempo realistica, che caratterizza tutti. Nel film non c’è una distinzione manichea fra “buoni” e “cattivi”: chi più chi meno, tutti i personaggi sono negativi, e in fin dei conti anche il protagonista Milian è un bandito e un assassino, quindi risulta difficile immedesimarvisi. Notevoli alcune sequenze ricche di perversione, quali la Tolo che osserva eccitata i due uomini spartirsi l’oro, i banditi di Sorrow che guardano con lussuria il ragazzo prigioniero (un giovane Ray Lovelock), oppure lo stesso Lovelock che fa a pezzi i vestiti della matrigna dopo averla vista baciare il padre. C’è davvero di che sedersi sul lettino dello psicanalista, e anche questo è un dato praticamente unico nel genere western. La crudeltà, che valse al film la censura, non è per nulla gratuita ma finalizzata a una realistica rappresentazione della natura umana: stando alle dichiarazioni di Questi, lui e Arcalli nel ritrarre le scene di violenza si sono ispirati agli orrori che hanno realmente vissuto durante la Resistenza Partigiana. Se sei vivo spara è quindi anche un western metaforico, pervaso di surrealismo ma al contempo estremamente reale: pensiamo alla folla impazzita che inizia una caccia selvaggia contro i banditi e poi contro lo straniero, crudo esempio di una follia collettiva e dell’agire irrazionale della massa. Vediamo quindi il bandito Oaks (Piero Lulli) crivellato da pallottole d’oro e massacrato dai presenti che affondano le mani nelle sue carni per estrargliele, un indiano scalpato (con tanto di dettagli) e Hagerman che muore ricoperto dall’oro fuso – quasi un contrappasso dantesco. Il rosso del sangue è uno fra i colori dominanti del film, che risulta estremamente crudo anche nella rappresentazione del linciaggio – con primi piani sugli impiccati – o nella tortura di Tomas Milian incatenato. Le sparatorie e i duelli, ben coreografati, de-mitizzano l’enfasi lirica del western classico alla Sergio Leone, riducendosi a barbari scontri senza eroi (da notare anche l’assenza dello sceriffo, figura solitamente immancabile in un film western). Alla violenza si unisce un tono gotico in certi momenti: non solo il protagonista che emerge dalla terra quasi fosse tornato dalla morte, ma anche la moglie pazza di Hagerman chiusa in una stanza e che si affaccia alla finestra come una presenza fantasmatica.

Tomas Milian è autore di una performance gigantesca, sicuramente fra le migliori della sua lunga e variegata carriera: la sua inconfondibile espressione, carica e sanguigna, è valorizzata dai frequenti primi piani realizzati da Questi (inquadratura utilizzata di frequente anche sugli altri personaggi). Notevole pure il cast di contorno: gli inconfondibili Lulli e Camardiel, celebri villain del western italiano, l’esordiente Lovelock che diventerà una star del nostro cinema, gli spagnoli Milo Quesada (Templer) e Paco Sanz (Hagerman), tutti con i volti e le interpretazioni giuste; la componente femminile è dominata dalla dark-lady Marilù Tolo, ma trova uno spazio importante anche Patrizia Valturri nel ruolo della donna pazza – che intrattiene con Milian una breve relazione, unico momento d’amore in questo mondo distorto e feroce.

La colonna sonora

Un western come Se sei vivo spara non poteva che avere una musicalità del tutto particolare: affidata al compositore Ivan Vandor (Professione: reporter di Antonioni, 1975) , è dominata da uno score trascinante con percussioni ossessive contrappuntate da una melodia più fluida e lirica – con l’effetto di un impasto sonoro contrastante – che si evolve in un brano di ampio respiro. A questo tema, che si ripete innumerevoli volte nel film, si affiancano pezzi dissonanti e surreali che accompagnano i momenti più lugubri, come gli spasmi della donna rinchiusa.

Davide Comotti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *