È recentemente scomparso uno degli scultori più importanti del nostro secolo: Igor Mitoraj.
Nato nel 1944 a Oederan, in Polonia, nel ’45 scampò al bombardamento di Dresda. La madre, al tempo deportata e costretta ai lavori forzati, decise, una volta finita la guerra, di tornare a Cracovia, dove Igor studiò alla Scuola d’Arte e all’Accademia d’Arte. Si trasferì poi a Parigi, dove continuò i suoi studi e successivamente visse per un anno in Messico, dove subì il fascino delle grandi sculture antiche americane. Nel 1974 tornò a Parigi, dove decise di decicarsi quasi esclusivamente alla scultura, per cui aveva già ricevuto alcuni riconoscimenti.
Il referente principale della sculture di Mitoraj fu la classicità, richiamo costante per l’uomo di ogni tempo, mito indiscusso nelle nostre menti, simbolo di un passato che fa parte di noi e che resta indelebile nel tempo. Ma l’intenzione di Mitoraj non fu quella di esaltare la classicità, volle semplicemente rappresentarla nello stesso modo in cui il passato è arrivato a noi, tramite frammenti. Condensando la grandiosità e l’imponenza delle sculture messicane, la bellezza delle sculture greche classiche e la contemporaneità del nostro tempo, Mitoraj creò sculture in bronzo e in marmo che esprimono e danno l’idea del tempo che passa, che arriva a noi non integro, ma frammentato. Ispirandosi ai personaggi mitologici della Grecia arcaica come Adone, Venere, Zeus, rappresentò volti enormi che poggiano su un lato, a volte parzialmente bendati, come fossero reduci da un intervento chirurgico, oppure busti a cui mancano alcune parti. Questa caratteristica ci rammenta la caducità dell’esistenza, la fragilità umana, ci ricorda come il tempo lascia segni indelebili sulle cose.
Ma queste stesse bende possono anche rappresentare una sorta di ancora di salvataggio, un modo per contrastare e contenere l’inevitabile distruzione delle cose.
Nel 1983 Mitoraj arrivò in Italia, e si innamorò di Pietrasanta, dove stabilì la sua seconda residenza, lavorando in continuo transito tra la Francia e l’Italia. Qui, in Toscana, entrò in contatto con uno dei materiali che più utilizzò, il marmo di Carrara, il cui candore e la cui forza risaltano ancora nelle opere dei grandi scultori del passato, uno tra tutti Michelangelo.
Lo spettatore di fronte alle sue opere si trova a dialogare con frammenti che sembrano emersi da scavi archeologici, sculture mutilate la cui imponenza, i cui lineamenti perfetti, la cui calma sembrano voler dire qualcosa di più, sembrano celare una potenza intrinseca.
Lo sguardo vuoto dei volti attira quello dell’osservatore, e sembra insinuarsi nell’anima, nell’inconscio. Lo spettatore entra col proprio sguardo nell’opera e prova a colmare l’assenza di quelle parti che lo scultore ha volutamente omesso, cercando di ricreare una forma compiuta e fondendosi con essa.
Bisogna stare attenti a non confondere però la sua poetica con quella di Canova, il più grande scultore dei neoclassici: Mitoraj va oltre la semplice rappresentazione, facendo dialogare queste figure antiche con la modernità, togliendole dal contesto in cui sono inserite e frammentandole, cercando tutt’altro che la perfezione.
Come scrive lo storico dell’arte Rudy Chiappini: “La bellezza che emana dalle creature di Mitoraj trascina con sé emozioni profonde e commossa partecipazione sentimentale proprio perchè non si impone come assoluta e perfetta ma si rivela in tutta la sua dimensione umana, terrena, rinunciando all’assoluto per resistere anche se lacerata e assediata dalle intemperie esistenziali”.