Detenuto in attesa di giudizio (1971) di Nanni Loy

Intorno al film

Nei turbolenti anni Settanta, anche un simbolo della commedia italiana come Alberto Sordi si cala di frequente in ruoli drammatici, già anticipati in pellicole precedenti come La Grande Guerra o Una vita difficile: prima ancora di Un borghese piccolo piccolo (1977), l’Albertone nazionale dà vita a un altro personaggio memorabile nel bellissimo e amaro Detenuto in attesa di giudizio (1971) di Nanni Loy – che insieme al capolavoro di Mario Monicelli forma un ideale dittico di denuncia sociale. Loy, regista celebre per le sue commedie irriverenti (ricordiamo Amici miei – Parte III), si trova pure lui alle prese con un genere insolito per i suoi canoni, dando origine a un’opera memorabile e di sconcertante attualità.

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La vicenda

Giuseppe Di Noi (Alberto Sordi) è un geometra italiano trasferitosi da anni in Svezia, dove ha fatto famiglia e costruito una solida azienda di legname. Durante le vacanze, torna per la prima volta in Italia con la moglie Ingrid (Elga Andersen) e i loro due bambini: quella che doveva essere una gita spensierata si trasforma in un incubo quando alla frontiera viene arrestato e condotto immediatamente nel carcere milanese di San Vittore. Accusato di omicidio colposo, non gli viene concesso il diritto di difendersi e deve così confrontarsi con la dura vita del carcere, continuamente trasferito da una prigione all’altra in tutta Italia. Mentre la moglie si attiva per scagionarlo, la mente dello sventurato Di Noi inizia a vacillare.

Narrazione e stile

Detenuto in attesa di giudizio nasce in un momento molto particolare per la società italiana e il suo cinema, che come sempre diventa lo specchio di un’epoca: un periodo di fermento sociale, paura, sfiducia nelle istituzioni, un marasma che si ripercuote sia sul cinema “di genere” poliziesco (più impegnato di quanto spesso si creda) sia su quello più squisitamente d’autore – come è appunto il caso del nostro film. Nello stesso anno, il grande Damiano Damiani realizza un’opera simile, L’istruttoria è chiusa: dimentichi, con Franco Nero. Le due storie hanno parecchi punti in comune, ma se Damiani coniuga impegno e spettacolo (violenza, azione, una sotto-trama gialla) come solo lui sapeva fare, Nanni Loy si pone su tutt’altro versante. Al realismo assoluto di Damiani, il regista mescola uno stile grottesco e surreale che non può mancare in un autore di commedie. Detenuto in attesa di giudizio risulta un’opera amarissima, dura, persino angosciante, in cui la performance di Alberto Sordi e la regia di Loy riescono a inserire dei momenti quasi umoristici o quanto meno paradossali, che – lungi dal divertire – fungono da lente di ingrandimento per una spietata messa a nudo della malagiustizia e del sistema carcerario.

Soggetto e sceneggiatura sono scritti a due mani da Sergio Amidei ed Emilio Sanna, da un’idea di Rodolfo Sonego. La regia sviluppa la storia in modo scorrevole e appassionante, mentre Alberto Sordi diventa il pilastro e il mattatore – unico vero protagonista – di tutta la vicenda. Gli altri personaggi si alternano rimanendo un po’ sullo sfondo (anche se alcuni che vedremo sono davvero ben riusciti), e pure la moglie finisce col ricoprire un ruolo secondario: Sordi giganteggia come sempre, in grado di spaziare dall’umorismo iniziale all’amarezza e incredulità di quanto sta vivendo, fino all’esplosione di rabbia e follia che conducono alla triste conclusione. Giuseppe Di Noi (un cognome parlante) è il cittadino qualunque, l’uomo medio italiano, un onesto lavoratore che ha fatto fortuna all’estero ma che tiene sempre l’Italia nel cuore – come recita la canzone che canta durante il viaggio in famiglia. Un affetto destinato però ad essere mal ripagato, visto che il suo amato Paese sarà causa di un’interminabile odissea giudiziaria che minerà per sempre la sua salute mentale. Nel mirino di Loy entrano tanto le storture della giustizia quanto la denuncia delle condizioni dei carcerati – temi attuali tanto all’epoca quanto oggi. Allo sventurato Di Noi viene negato infatti ogni diritto (all’inizio non sa neanche con che accusa viene arrestato), e al personaggio non rimane che obbedire all’ordine del “superiore” (“ma superiore a chi?”, recita Sordi) ed essere sballottato da un carcere all’altro: San Vittore, Regina Coeli, Sagunto, sempre in condizioni disumane, fino all’internamento in manicomio, dove per assurdo sarà rimproverato dal giudice perché difendersi era un suo “diritto e dovere”.

L’andamento della storia, con questi continui e immotivati trasferimenti, è volutamente deformata in maniera un po’ grottesca e surreale, ma al contempo terribilmente realistica. La narrazione segue uno stile “popolare” anche se mai semplicistico, uno sguardo ingigantito che – lontano da ogni intellettualismo di maniera – arriva dritto al cuore dello spettatore suscitando forti emozioni e trasmettendo messaggi ben precisi. Anche nei (pochi) momenti umoristici, ridere è impossibile, talmente è forte l’immedesimazione col personaggio di Sordi, quel cittadino che può essere uno qualunque Di Noi, stritolato dalla morsa di una “giustizia” che non difende il cittadino. Il sarcasmo di Sordi, che andrà man mano perdendo, è frutto di una condizione di straniamento, cioè il ritrovarsi in una situazione che non riesce a comprendere e che cambia gradualmente la sua personalità: il protagonista è completamente sbalestrato, sempre convinto che sia in carcere “di passaggio” e dunque prossimo alla scarcerazione. Le sequenze da antologia si sprecano, fra parossismi burocratici-giudiziari e grandi momenti corali. Non si contano i passaggi e le formalità che il povero Di Noi deve espletare ogni volta, in un’escalation di paradossi la cui assurdità finisce per diventare drammatica. Claustrofobiche tutte le scene ambientate nelle luride celle, con un effetto amplificato dalla camminata nevrotica di Sordi. Commovente la sequenza della Messa in cui Sordi pronuncia a voce alta le risposte al sacerdote, ignorando che ai carcerati è vietato, e per solidarietà i compagni iniziano a loro volta a declamare le frasi a gran voce. Segue la punizione del direttore e la relativa sommossa dei detenuti, in cui il protagonista si trova coinvolto suo malgrado preferendo restare in cella. Durissima la scena dell’assalto dei galeotti, quando Sordi aggredito si trasforma in una bestia furiosa per poi trovarsi legato a un letto in preda a convulsioni.

Se Sordi – come detto – è protagonista assoluto e mattatore irresistibile di tutto il film e la moglie Elga Andersen pur se efficace rimane in secondo piano, sono memorabili alcuni caratteri a latere che incontriamo: fra gli innumerevoli caratteristi del cinema italiano (Michele Gammino, Mario Pisu, Andrea Aureli, Gianni Bonagura) che con le loro facce “giuste” impreziosiscono la narrazione, spicca il grande Tano Cimarosa (lo “Zecchinetta” del Giorno della civetta di Damiani) nel ruolo di un sadico secondino che a Sagunto prende di mira lo sventurato Di Noi. Nel cast troviamo persino un giovane Lino Banfi in un ruolo insolitamente drammatico, il direttore del carcere tanto odioso quanto goffo nella sua arroganza. Riuscitissimo anche il personaggio di Saverio (Nazzareno Natale), un delinquente con cui Sordi stringe amicizia e che finisce suicida in carcere.

La colonna sonora

Detenuto in attesa di giudizio si avvale di un compositore d’eccezione, il grande Carlo Rustichelli – autore di colonne sonore conosciuto dagli appassionati di cinema italiano per le sue musiche sia in film “di genere” che “d’autore”. Le sue melodie sono caratterizzate spesso da un andamento jazz, che qui ripropone in maniera un po’ diversa attraverso temi vivaci e orecchiabili ma contenenti una vena di malinconia, alternati a motivi più gravi e cupi.

Davide Comotti

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