Django Unchained

Intorno al film

Il 17 gennaio 2013 è finalmente uscito nelle sale italiane l’attesissimo Django Unchained (2012), il primo western di Quentin Tarantino. Un nuovo film di Tarantino, si sa, è sempre un evento da prima pagina, e questo non fa eccezione. Dopo l’esplosivo successo del precedente war-movie Bastardi senza gloria (2009), il regista americano stupisce ancora pubblico e critica realizzando quello che è probabilmente il suo capolavoro, insieme ai due Kill bill (2003/2004). Un sentito omaggio al western italiano (uno dei suoi generi preferiti) rielaborato in una chiave del tutto personale, “americana”, umoristica e a tratti paradossale. Chi conosce il Django originale (1966) di Sergio Corbucci (uno dei capolavori indiscussi del genere) non si aspetti assolutamente un remake: gli unici elementi in comune sono il nome del protagonista e i temi del razzismo e della vendetta; per il resto, Tarantino prende (come sempre) una strada tutta sua, fatta di citazioni e rielaborazioni.

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La vicenda

La vicenda prende il via nel 1858, poco prima dell’inizio della Guerra di Secessione. In Texas, il cacciatore di taglie tedesco King Schultz (Christoph Waltz) restituisce la libertà a Django (Jamie Foxx), un uomo di colore prigioniero degli schiavisti, affinché lo aiuti a trovare i fratelli Brittles, tre banditi a cui sta dando la caccia. Dopo averli individuati e uccisi, fra i due nasce un solido legame di amicizia: il tedesco diventa un maestro per Django, trasformandolo in un abile pistolero. Insieme, si recano poi nella piantagione del crudele schiavista Calvin Candie (Leonardo DiCaprio), in Mississippi, per liberare la moglie di Django: dovranno affrontare tutta la sua banda senza fare economia di piombo.

Narrazione e stile

Django Unchained, come tutte le opere di Tarantino, è un film assolutamente sopra le righe (personaggi compresi), in cui convivono armoniosamente dialoghi a raffica, impegno civile, esplosioni di violenza e momenti di umorismo. Con i suoi 165 minuti, è il film più lungo del regista americano, ma la lunghezza non si sente, e questo è segno inequivocabile di alta qualità: la vicenda scorre via tutta d’un fiato e non c’è un solo momento in cui l’attenzione dello spettatore rischi di venire meno.

Scritto e diretto dallo stesso Tarantino, il film si avvale di eccellenti interpretazioni, a cominciare dai due protagonisti principali: Django è interpretato dall’attore americano di colore Jamie Foxx, specializzato in film d’azione, mentre nel ruolo del bounty-killer King Schultz troviamo un grande attore austriaco, Christoph Waltz, reso celebre proprio da Tarantino con il precedente Bastardi senza gloria. Da notare la grande versatilità di Waltz, che nel war-movie interpretava lo spietato colonnello nazista Hans Landa, mentre in Django Unchained è un bizzarro cacciatore di taglie tedesco (ex dentista) che si oppone al razzismo e alla schiavitù. Come ogni buon pistolero, Schultz non è inizialmente animato da propositi umanitari, e libera Django solo per il proprio interesse, ma pian piano abbraccia la sua causa fino a combattere al suo fianco e a rimetterci la vita. Leonardo DiCaprio veste alla perfezione i panni del mefistofelico Calvin Candie, crudele schiavista e proprietario terriero, che in fatto di crudeltà gareggia con il suo servitore di colore Stephen (Samuel L. Jackson), il quale tradisce la sua etnia mettendosi al servizio del potere.

Nessuno dei personaggi è banale: tutti hanno un qualcosa di fumettistico (negli atteggiamenti, nel modo di vestire), ma nello stesso tempo sono ben tratteggiati psicologicamente, anche se questo è solo una delle componenti fondamentali del film, che si propone di ricostruire e, nel contempo, decostruire, un immaginario western senza confini. A questo contribuiscono in maniera grandiosa i bellissimi paesaggi (con l’ottima fotografia di Robert Richardson), che vanno dai canyon assolati alle cittadine deserte (forse un ulteriore omaggio al Django di Corbucci), dalle montagne innevate alle praterie, fino alle immense piantagioni del Mississippi.

Una delle specialità di Tarantino, si sa, sono i dialoghi, scritti da lui stesso. Django Unchained non fa eccezione, offrendo allo spettatore un campionario di battute irresistibili mescolate a discorsi profondi, botta e risposta secchi alternati a sproloqui in cui spesso si parla del nulla (bellissime, per esempio, le perifrasi utilizzate da Waltz). Rispetto ai suoi film precedenti, in questo western si accentua l’aspetto umoristico, che però non risulta mai fuori luogo, a parte in una sequenza, cioè quando gli uomini del Ku-Klux-Klan (guidati da un crudele Don Johnson) si fermano a discorrere di come sono stati fatti i loro cappucci, dando vita a un siparietto comico che Tarantino poteva risparmiarci, vista la crudeltà storica di questa setta. Una sequenza tanto più strana e inspiegabile vista la sensibilità che Tarantino mostra lungo tutto il film nei confronti del problema razziale, mostrando le crudeli vessazioni a cui erano sottoposti gli uomini di colore. Il tema del razzismo, nel western e non solo, è da sempre uno dei più scomodi, e non a caso è stato affrontato poche volte nel genere: Django Unchained (“Django liberato, sciolto dalle catene”) lo fa in maniera rivoluzionaria, già per il fatto di porre al centro della vicenda un pistolero di colore (addirittura Django, pistolero bianco per eccellenza).

Secondo chi scrive, l’intento principale di Django Unchained non è comunque l’analisi sociologica, quanto piuttosto un sentito omaggio al western italiano tanto amato dal regista, rielaborato e ricostruito secondo il suo personalissimo stile. Le citazioni dei cosiddetti “spaghetti western” sono numerose (oltre alla natura stessa del film, incentrata sul personaggio di Django): le sparatorie sulla neve ricordano molto quelle de Il Grande Silenzio, il protagonista che cavalca a pelo riprende la stessa azione compiuta da Burt Reynolds in Navajo Joe, le lezioni di pistola omaggiano I giorni dell’ira (di cui sentiamo anche la musica), l’uomo sbranato dai cani e quello frustato a sangue sembrano scene riprese direttamente da un’altra pietra miliare del genere, Le colt cantarono la morte…e fu tempo di massacro. Chi conosce i cosiddetti “spaghetti western” e vede il film Tarantino nota subito queste citazioni, ma nel contempo capisce che sono state trasformate e inserite in un contesto completamente diverso, più moderno e “pulp” (per utilizzare un termine tanto caro al regista).

Un’altra caratteristica ripresa dagli western italiani è la violenza, che in certi momenti emerge in maniera esasperata, con il sangue che scorre a volontà. Le scene d’azione sono strepitose, con sparatorie epiche e fragorose tra pistole, fucili e derringer nascoste nella manica.

Curioso è il cammeo di Franco Nero (interprete del Django originale di Corbucci), protagonista di un’ottima scena meta-cinematografica: nei panni di uno schiavista, discute con Django sul modo in cui il nome si scrive e si pronuncia, rispondendo con uno stizzito “lo so”. Come a voler dire: “vuoi che non lo sappia, proprio io che ho interpretato Django prima di te?”. Semplicemente geniale.

Chi scrive non è un fan di Tarantino, ma quando un film è un capolavoro bisogna riconoscerlo: e Django Unchained sicuramente lo è.

La colonna sonora

La colonna sonora è anch’essa un concentrato di citazioni da vari western italiani. A cominciare dalla canzone Django di Luis Bacalov (cantata da Rocky Roberts), che Tarantino riprende senza modifiche dal film di Corbucci e la inserisce, come nell’originale, sui titoli di testa (scritti, fra l’altro, con lo stesso carattere). Ma sentiamo anche altre musiche di western nostrani (I giorni dell’ira di Riz Ortolani, Lo chiamavano Trinità di Franco Micalizzi, e altre ancora). Nella colonna sonora di Django Unchained, naturalmente, c’è spazio anche per nuove composizioni musicali dal sapore più moderno e “americano”. Originale, per un western, è la canzone Ancora qui, composta da Ennio Morricone e scritta e cantata da Elisa nel suo tipico stile malinconico.

Davide Comotti. Bergamasco, classe 1985, dimostra interesse per il cinema fin da piccolo. Nel 2004, si iscrive al corso di laurea in Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Bergamo (laurea che conseguirà nel 2008): durante gli studi universitari, ha modo di approfondire la sua passione tramite esami di storia, critica e tecniche del cinema e laboratori di critica e regia cinematografica.

Diventa cultore sia del cinema d’autore (Antonioni, Visconti, Damiani, Herzog), sia soprattutto del cinema di genere italiano (Fulci, Corbucci, Di Leo, Lenzi, Sollima, solo per citare i principali) e del cinema indipendente di Roger A. Fratter.

Appassionato e studioso di film western, polizieschi, thriller e horror (soprattutto italiani), si occupa inoltre dell’analisi di film rari e di problemi legati alla tradizione e alle differenti versioni di tali film.

Nel 2010, ha collaborato alla nona edizione del Festival Internazionale del Cinema d’Arte di Bergamo.

Scrive su “La Rivista Eterea” (larivistaeterea.wordpress.com), ciaocinema.it, lascatoladelleidee.it.
Ha curato la rubrica cinematografica della rivista Bergamo Up e del sito di Bergamo Magazine. Ha scritto inoltre alcuni articoli sui siti sognihorror.com e nocturno.it.

Ha scritto due libri: Un regista amico dei filmakers. Il cinema e le donne di Roger A. Fratter (edizioni Il Foglio Letterario) e, insieme a Vittorio Salerno, Professione regista e scrittore (edizioni BookSprint).

davidecomotti85@gmail.com

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