DOWN BY DI LEO (2015) di M. Deborah Farina

Non si parla mai abbastanza dell’importanza che ha rivestito per il cinema (italiano e straniero) il regista Fernando Di Leo (1932-2003): cineasta, intellettuale e scrittore di altissimo livello, maestro del noir e del gangster-movie nelle sue accezioni più sottili e socio-psicologiche, nonché autore adorato da Quentin Tarantino, ha spaziato anche per molti altri generi – dalla commedia al war-movie, dal dramma al thriller, riuscendo sempre a cogliere le sfumature più complesse della società italiana e dei suoi mutamenti.

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Anni dopo la monumentale video-intervista realizzata da Nocturno Cinema, torna a occuparsi del maestro il documentario Down by Di Leo (2015) di M. Deborah Farina: regista cinematografica e teatrale, documentarista, saggista e studiosa di cinema, è fra le più rinomate e sperimentali artiste italiane contemporanee, attiva nelle arti visive a 360 gradi fra lungometraggi, corti, documentari e videoclip. Per ciò che concerne i lunghi, dopo Paranoyd e Anarchitaly realizza questo “viaggio d’amore” (come recita il sottotitolo) frutto di un lungo e analitico lavoro di ricerca e montaggio. “Down by” – spiega la Farina – sta per “verso” o “dalla parte di”, un sentito viaggio nella profondità del personaggio Di Leo sia come uomo sia come cineasta: e un occhio attento riconosce subito questa duplicità, grazie a un’abile alternanza fra momenti di cervello e di cuore, un giusto equilibrio fra analisi divulgativa della sua filmografia e calore del ricordo umano. Il titolo è anche una citazione dal film Down by law di Jim Jarmusch, uno dei registi ispiratori della Farina.

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Introdotto dalla poesia Contratto del poeta di Fernando recitata da Pier Paolo Capponi, Down by Di Leo si snoda attraverso numerose testimonianze di familiari (la sorella Rita, il cognato Aris Accornero, i nipoti Dario Accornero e Giuliana La Verde) e artisti che hanno lavorato con lui: in ordine alfabetico, Sergio Ammirata, Renzo Arbore, Lino Banfi, Peter Berling, Barbara Bouchet, il suddetto Capponi, Vincenzo Dell’Aquila, Gianni Garko, Galliano Juso, Gianni Macchia, più un inserto di repertorio da Venezia 2004 in cui Quentin Tarantino è intervistato dalla Bouchet. I personaggi si alternano in modo da formare un discorso fluente, anche dal punto di vista temporale: si inizia dalla gioventù di Di Leo, poi seguiamo il suo percorso nel mondo del cinema, la fondazione della Daunia, le sceneggiature e le regie, addentrandosi nei meandri dei numerosi film da lui diretti, passando per il periodo di oblio e la tardiva riscoperta. Le interviste sono inframezzate da scene tratte dalle sue pellicole più importanti, messe a disposizione da Minerva Pictures e RaroVideo.

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Vediamo prima i film che ha sceneggiato (Per un pugno di dollari, Tempo di massacro, Navajo Joe, tutti western seminali dietro ai quali c’è la sua mano), poi le regie. Trovano ampio spazio la “trilogia del milieu” (Milano calibro 9, La mala ordina, Il boss) e gli altri noir (I ragazzi del massacro, Il poliziotto è marcio, La città sconvolta, I padroni della città, Diamanti sporchi di sangue), ma Deborah Farina è attenta nel cogliere che Di Leo non è solo il regista dei (sublimi) gangster-movie, ma anche di opere contestatarie come Brucia ragazzo, brucia e Avere vent’anni, puntualmente mostrate. Di tutti i generi narrati, le testimonianze ricostruiscono l’accurato lavoro che sta dietro ogni film (regia, costruzione dei personaggi) e delineano i caratteri essenziali del suo modo di fare cinema. Interviste e spezzoni dei film sono montati in modo da costruire un discorso appassionato e appassionante, lontano dalla pedanteria enciclopedica di tanti documentari. Attori e collaboratori raccontano la lavorazione dei film, arricchendoli con aneddoti e curiosità; come anticipato, si concede un ampio spazio al lato umano di Fernando, descritto come una persona di grande cultura e affabilità, intellettuale di sinistra, oltre che grande professionista sul set, un uomo in cui vita e cinema sono uniti in modo indissolubile, proprio come avviene nel documentario; molto toccanti in proposito anche i ricordi dei familiari.

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La Farina scrive, dirige e monta il documentario in modo artistico e “pop”, con un particolare lavoro sul montaggio: non solo per le alternanze descritte finora, ma anche per una complessa rielaborazione di immagini e musiche. Tante scene dei film sono rimontate e/o modificate (notiamo ad esempio lo split-screen sull’incipit di Milano calibro 9), sonorizzate con musiche provenienti da altri film di Di Leo oppure da brani reinterpretati dalla band Calibro 35; accanto, notiamo l’inserimento di brani esterni accostati concettualmente a ciò che si vede o si racconta (come la canzone Ti voglio di Ornella Vanoni sul capitolo riguardante il rapporto tra Fernando e le donne, o La cosa più bella di Claudio Villa che si sente alla radio ne Il boss e qui usata per sonorizzare un collage del film). Alcuni spezzoni sono usati con un “montaggio concettuale”: si parla della vita mondana, ed ecco una scena di festa, si parla del suo arrivo a Roma, ed ecco un estratto romano da La seduzione, e così via. Curiosa anche la conclusione del film, uno spezzone tratto dalla commedia/noir Colpo in canna, con la protagonista Ursula Andress che parte in aereo: una sottigliezza sublime, che scopriamo dalle parole di Deborah, consiste nel fatto che questa in realtà non è la conclusione, ma il metaforico inizio della sua avventura come regista nel viaggio d’amore “verso Di Leo”. Il film è dedicato al documentarista Albert Maysles, maestro di Deborah Farina: la regista dimostra di aver appreso molto bene i suoi insegnamenti.

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