Drive (2011), crimine e amore secondo il geniale Refn

Intorno al film

In attesa dell’uscita del noir Only God forgives, rivediamo il precedente film di Nicolas Winding Refn, Drive (2011), vincitore del premio per la miglior regia a Cannes e ancora fresco di visioni e interpretazioni. L’autore danese è uno dei più geniali registi contemporanei, e uno dei pochi in grado di fronteggiare lo strapotere del cinema americano. Quello di Refn è un cinema d’autore a tutti gli effetti, pur sembrando “di genere” (noir, thriller, epico, d’azione), perché ogni film è un’espressione autentica di un suo pensiero e stile personale. L’universo refniano è popolato sempre da outsider, figure ai margini della società in cerca di una rivincita, quasi sempre destinata a fallire (piccoli e grandi delinquenti, carcerati, antichi guerrieri, uomini qualsiasi alle prese con un fallimento esistenziale). Sicuramente fra i migliori del regista danese (se non addirittura il migliore), Drive è il suo primo film ad essere girato negli Stati Uniti.

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La vicenda

Los Angeles. Driver (Ryan Gosling) ha una doppia vita: di giorno meccanico e stuntman, di notte autista nelle rapine. Accanto a lui vive Irene (Carey Mulligan) col figlio Benicio, mentre il marito Standard è in carcere. Inevitabilmente, i loro destini si incrociano. Driver si affeziona alla donna e al bambino, a tal punto che decide di aiutare il marito una volta uscito di prigione. Insieme ad alcuni complici, accetta di fare da autista per una rapina che dovrebbe servire ad appianare i suoi debiti. Ma quello che sembrava un lavoro di routine si rivela essere estremamente pericoloso, in quanto i soldi rubati appartengono alla mafia: Driver si trova così a lottare per difendere se stesso e la donna da due pericolosi gangster, Bernie Rose e Nino.

Narrazione e stile

La filmografia di Refn è incredibilmente ampia e variegata, vista la sua giovane età (classe 1970): la trilogia di Pusher (noir realistici di ambientazione danese), Bronson (dramma carcerario sospeso fra violenza e ironia), Valhalla Rising (saga epica dal sapore herzoghiano), le due opere sperimentali Bleeder e Fear X, e Drive. Il film in analisi non è un semplice film d’azione, come potrebbe sembrare dalla trama, perché Refn riesce sempre ad andare oltre i canoni del genere, sviluppando un’opera d’autore assolutamente personale.

Drive è la prova definitiva del genio di Refn, che dirige per la prima volta un film negli USA senza però conformarsi al target hollywoodiano. Dramma esistenziale, sinfonia di amore e morte, film d’azione e western contemporaneo: Drive è questo e molto altro ancora. La definizione di “western”, apparentemente fuori luogo, può essere invece il punto di partenza per descrivere l’atmosfera che si respira: Driver è un uomo senza nome e dal passato misterioso (riprende un po’ la figura del Cavaliere della valle solitaria), aiuta una famiglia senza chiedere nulla in cambio, vive una storia d’amore impossibile e riparte poi, gravemente ferito, verso il nulla da cui è arrivato. Una figura quasi “magica” dunque, che contribuisce, insieme alle splendide musiche, a dare al film un’impronta sospesa e quasi “da favola”.

Una favola crudele, però, visto che la violenza e il sangue abbondano. A cominciare dalla spedizione punitiva dei due killer nei confronti di Driver e della sua complice, la quale viene uccisa da una fucilata che le fa letteralmente esplodere la testa (con un poderoso ralenti alla Sam Peckinpah). Pensiamo anche all’eliminazione di un complice scomodo da parte del gangster Bernie Rose, che gli conficca un coltello in un occhio per poi tagliargli la gola. Molte altre sono le scene violente, dove Refn dimostra un gusto quasi “pulp” per la messa in mostra del sangue, ma la sequenza-simbolo del film e del suo alternarsi di crudeltà e sentimento è quella dell’ascensore: Driver bacia Irene (l’unico atto d’amore concreto fra i due), poi elimina brutalmente a calci il killer che stava per estrarre la pistola. Una sequenza dall’atmosfera più che mai rarefatta, un concentrato di puro cinema che lascia senza fiato lo spettatore.

Qualcuno ha erroneamente definito Refn come il “Quentin Tarantino” danese, per l’esibizione della violenza e i lunghi dialoghi. In realtà, come scrive Fabio Zanello in La vendetta degli anti-eroi, “con Tarantino l’autore danese condivide al massimo una certa verbosità (…) questo regista persegue uno stile di regia, più sobrio ed essenziale, scarnificando rispetto alle narrazioni di Tarantino il racconto di flashback, digressioni, contorsioni temporali e frammentazioni per renderlo più lineare”. Preso atto di questo, Drive è comunque (insieme a Valhalla Rising) il film meno “tarantiniano” di Refn: rispetto a Pusher e Bronson, dove i dialoghi frenetici potevano richiamare in parte quelli del regista americano, qui siamo sul versante opposto, perché uno dei caratteri del film è proprio l’essenzialità dei dialoghi, sui quali spesso prevale il silenzio. E non basta certo la violenza (una costante di tutta la cinematografia refniana) a connotare il suo stile come “tarantiniano”, o si arriverebbe all’assurdo che ogni film violento è ispirato a Tarantino.

Drive aggiunge un nuovo tassello all’universo del cinema di Refn. Gli ambienti preferiti dall’autore danese sono quasi sempre i differenti milieu della malavita: dai piccoli spacciatori di Copenaghen ai grandi boss della droga (la saga di Pusher), proseguendo con la vita carceraria inglese (Bronson), fino allo sbarco nella micro e macro criminalità americana. Driver stesso, stuntman e autista di rapine, è un anti-eroe, che poco alla volta diventa quasi un “supereroe” (simboleggiato dalla sua maschera di stuntman) per difendere la donna che ama e la sua famiglia. Il bel tenebroso Ryan Gosling interpreta alla grande questo ruolo, che è la sua definitiva consacrazione nel cinema americano e non solo (tant’è vero che Refn l’ha voluto anche per Only God forgives). Dunque, lo stesso protagonista è un criminale (nessuno si salva, nel cinema di Refn): se vogliamo, è un “criminale buono”, che si trova coinvolto in un affare più grande di lui. La malavita che conta è rappresentata dagli spietati gangster Bernie Rose e Nino: rispettivamente, Albert Brooks (da ricordare in Taxi Driver) e l’inconfondibile Ron Perlman (celebre per il ruolo dell’eretico Salvatore nel Nome della rosa).

Come accennato in precedenza, il cinema di Refn è sempre popolato da outsider, anti-eroi, personaggi in cerca di riscatto ma destinati alla sconfitta. E tutti i protagonisti di Drive non fanno eccezione in tal senso: Driver uccide i suoi persecutori ma probabilmente va incontro lui stesso alla morte, Irene rimane vedova, entrambi vedono fallire la loro storia d’amore. L’atmosfera che permea il film, sottolineata dalla splendida colonna sonora, è dunque pregna di tristezza, malinconia mista a dolcezza e senso di fallimento.

Drive è dunque un dramma umano prima che un film d’azione, ma allo stesso tempo è il film di Refn più fruibile proprio per il ritmo e l’azione: da ricordare la corsa in auto iniziale (con tanto di soggettiva vertiginosa del guidatore), lo spericolato inseguimento dopo la rapina e i due agguati dei killer contro Driver, in casa e in ascensore.

La colonna sonora

L’atmosfera straniante e quasi “magica” del film è frutto anche della straordinaria colonna sonora, le cui musiche sono sempre al confine (come tutta la vicenda) fra film d’azione e film sentimentale. Memorabile soprattutto il pezzo A real hero, che sentiamo in due momenti (durante la romantica gita di Driver con Irene e Benicio e nel finale, in cui l’uomo si allontana moribondo): cantata dai College insieme agli Electric Youth, è una melodia dolce e nostalgica, dedicata al protagonista (“un vero eroe”, un “cavaliere” che viene dal nulla e nel nulla ritorna). Bellissima anche la ritmata e trascinante title-track Tick of the clock (dei Chromatics), e ottimi tutti gli altri brani, che, di volta in volta, puntano più sulla melodia o sul ritmo.

 

Davide Comotti

Bergamasco, classe 1985, dimostra interesse per il cinema fin da piccolo. Nel 2004, si iscrive al corso di laurea in Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Bergamo (laurea che conseguirà nel 2008): durante gli studi universitari, ha modo di approfondire la sua passione tramite esami di storia, critica e tecniche del cinema e laboratori di critica e regia cinematografica.

Diventa cultore sia del cinema d’autore (Antonioni, Visconti, Damiani, Herzog), sia soprattutto del cinema di genere italiano (Fulci, Corbucci, Di Leo, Lenzi, Sollima, solo per citare i principali) e del cinema indipendente di Roger A. Fratter.

Appassionato e studioso di film horror, thriller, polizieschi e western (soprattutto italiani), si occupa inoltre dell’analisi di film rari e di problemi legati alla tradizione e alle differenti versioni di tali film.

Nel 2010, ha collaborato alla nona edizione del Festival Internazionale del Cinema d’Arte di Bergamo.

Esordisce nella scrittura su “La Rivista Eterea” (larivistaeterea.wordpress.com). Attualmente scrive su ciaocinema.it, lascatoladelleidee.it, mondospettacolo.com. In precedenza, ha curato la rubrica cinematografica della rivista Bergamo Up e del sito di Bergamo Magazine. Ha redatto inoltre alcuni articoli per i siti sognihorror.com e nocturno.it.

Ha scritto due libri: Un regista amico dei filmakers. Il cinema e le donne di Roger A. Fratter (edizioni Il Foglio Letterario) e, insieme a Vittorio Salerno, Professione regista e scrittore (edizioni BookSprint).

Contatto: davidecomotti85@gmail.com

 

 

 

 

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