DVD cult: Sei donne per l'assassino (1964) di Mario Bava, il primo giallo moderno.

Intorno al film

Mario Bava è stato – e continua ad esserlo con i suoi film – uno dei più grandi registi del cinema italiano. Cineasta a 360 gradi, autentico genio e artigiano della settimana arte, è espressione di un modo di realizzare cinema oggi purtroppo scomparso, fatto con pochi soldi ma molte idee e una solida tecnica. Spazia fra vari generi, ma i suoi capolavori nascono soprattutto in due generi: l’horror gotico, che codifica con La maschera del demonio (1960), e il giallo. Nei primi anni Sessanta, Bava dirige La ragazza che sapeva troppo (1962), un bel giallo-rosa di matrice abbastanza classica che fa però da preludio al successivo: Sei donne per l’assassino (1964), un vero monumento per il genere. Coloratissimo e intrigante, è il primo vero giallo moderno, il film che codifica il futuro thriller argentiano su vari fronti: la storia (il “whodunit”, cioè un giallo basato sullo scoprire “chi è stato”), l’estetica dell’assassino (con impermeabile e guanti neri) e la coreografia degli omicidi. Pubblicato più volte in dvd – sia in Italia che all’estero – è stato di recente distribuito dalla Sinister Film in una bellissima edizione, con un ottimo master audio/video e numerosi contenuti extra.

SEI_DONNE_PER_ASSASSINO

La vicenda

In un atelier di moda diretto dalla contessa Cristiana (Eva Bartok) e dal signor Morlacchi (Cameron Mitchell) una modella viene strangolata nel parco e fatta ritrovare in un armadio. La cinica proprietaria decide di continuare ugualmente la sfilata, e una dopo l’altra le indossatrici vengono assassinate con ferocia dallo stesso misterioso assassino. Il legame fra i delitti sembra essere il diario della prima vittima: chiunque ne entra in possesso muore. L’ispettore Silvestri (Thomas Reiner) indaga.

Narrazione e stile

Sei donne per l’assassino è veramente un film seminale e imprescindibile per la storia del giallo italiano: ne codifica infatti i caratteri basilari che saranno poi ripresi e sviluppati da Argento (e da altri grandi registi) nel decennio successivo, quegli anni Settanta in cui il thriller conosce il massimo sviluppo e le migliori vette artistiche. In anticipo sui tempi, Bava realizza un film estremamente moderno e seminale, che contiene già tutti i caratteri narrativi e soprattutto estetici delle pellicole successive.

Vero film d’autore e non semplicemente “di genere”, Sei donne per l’assassino è un thriller appassionante, ma anche una vera lezione di tecnica cinematografica sotto ogni aspetto (inquadrature, movimenti di macchina, fotografia). Prima ancora della storia, sono proprio le immagini a catturare lo spettatore fin dai titoli di testa, quando gli attori vengono presentati in una teoria di luci e colori accanto a dei manichini, quasi confondendosi con loro. Lungo tutto il film, vedremo spesso inquadrature dominate da una serie di colori accesi (rosso, verde, giallo, blu) che si alternano e illuminano la scena con un caleidoscopio visivo quasi ipnotico: è una marca stilistica squisitamente baviana (ricordiamo I tre volti della paura, Operazione paura), un uso studiato delle luci in maniera “pop” e surrealista – che, guarda caso, ritroveremo anche in vari film di Dario Argento (Suspiria, Inferno). Spesso le luci sono pulsanti (si accendono e si spengono) in modo da aumentare la dimensione onirica e psichedelica che si viene a creare. Mario Bava, oltre che regista, è stato un grande direttore della fotografia – di cui si è occupato di persona nei suoi primi film: qui cede il posto al bravissimo Ubaldo Terzani, che diverrà il suo operatore di fiducia, ma la mano è del regista. Notiamo l’alternanza di luci iperrealistiche, i primi piani che contrastano i volti dei personaggi evidenziandone luci e ombre come su una scultura, i fondali bui su cui nascono tagli di luce, la creazione di una profondità di campo incredibile dal punto di vista visivo: tutto questo, grazie a una tecnica ferrea e a un uso creativo della fotografia e delle inquadrature. Notevoli anche i movimenti di macchina, con lunghi e fluenti piani-sequenza alternati a sequenze montate in maniera frenetica. Questo impianto visivo è sostenuto da una sfarzosa scenografia, dal sapore barocco e al contempo moderno: manichini, tendaggi e telefoni di un rosso accesissimo, specchi, interni sempre decorati con innumerevoli oggetti, dipinti e oggetti antichi contrapposti ad elementi scenotecnici d’avanguardia. Una vera gioia visiva, frutto di una ricerca tecnico-estetica non comune, e un esempio di arte cinematografica allo stato puro.

E narrativamente non è da meno. Se già La ragazza che sapeva troppo contiene alcuni elementi da thriller argentiano, qui siamo proprio – di fatto – già negli anni Settanta. L’assassino è vestito completamente di nero (impermeabile, guanti, cappello), ha il volto nascosto da una calza (l’ignoto che genera paura), uccide nei modi più disparati e in una scena è anche armato di rasoio: una figura, come fa notare il critico Fabio Melelli, già presente nei cosiddetti “Krimi” (i gialli tedeschi), ma amplificata e rivoluzionata da Mario Bava (forse non è un caso che il nostro film sia frutto di una co-produzione fra Italia, Francia e Germania). Per la prima volta, i delitti vengono mostrati in tutta la loro crudezza: Sei donne per l’assassino è un film molto violento, soprattutto se consideriamo il periodo in cui è nato. Ogni omicidio è realizzato con una tecnica diversa: ragazze strangolate, soffocate, annegate, una donna uccisa con un pezzo di ferro uncinato e un’altra ustionata contro la stufa. Certo, il sangue non è ancora esibito come sarà nei seventies – anche se la macchia rossa che si spande nella vasca da bagno rimane impressa – ma c’è un insistito gusto sadico nella rappresentazione dei delitti, ciascuno dei quali si protrae per diversi minuti. È veramente la prima volta che in un giallo si assiste a qualcosa di simile: è la nascita del giallo moderno, la trasformazione del giallo in thriller.

Notevole anche il cast, con attori dal viso giusto nel ruolo adatto. Cameron Mitchell, famoso attore americano attivo in quegli anni anche in Italia soprattutto nel western, ha il volto impassibile e il fisico granitico perfetti per questo ambiguo impresario. Del resto, nel film tutti i personaggi hanno un elemento di ambiguità, a cominciare dall’affascinante protagonista Eva Bartok, attrice ungherese molto quotata all’epoca. Ottime anche le figure di contorno, sia le modelle (fra cui riconosciamo Lea Kruger, futura interprete del feroce noir di Bava Cani arrabbiati) sia gli uomini che gravitano attorno all’atelier: il losco Luciano Pigozzi (il “Peter Lorre” italiano, figura immancabile nel gotico), il viscido Franco Ressel, l’epilettico Massimo Righi e il tossico Dante Di Paolo (che avevamo già visto ne La ragazza che sapeva troppo). Chiude il cerchio l’attore tedesco Thomas Reiner, corpulento e poco espressivo, nel ruolo dell’ispettore Silvestri.

La colonna sonora

La colonna sonora è affidata al celebre musicista Carlo Rustichelli, che ha lavorato con registi illustri del cinema italiano come Germi, Monicelli e Risi. Qui propone una melodia dal sapore jazz, con una lenta e ammaliante armonia di fiati. Un tema musicale morboso e ricco di fascino, evocante atmosfere torbide e misteriose quali appunto quelle dell’atelier e della “bella vita” che lo circonda. Da notare che Rustichelli riprenderà lo stesso tema quasi identico per la colonna sonora del noir Milano rovente (1973) di Umberto Lenzi.

 

Davide Comotti
Contatto: davidecomotti85@gmail.com

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