Film cult: In nome del popolo italiano (1971) Dino Risi

Intorno al film

Dino Risi è stato (e rimane) un maestro assoluto del cinema italiano – in grado come pochi altri di ritrarre l’Italia dagli anni Cinquanta ai primi Ottanta. In primis, attraverso la commedia agrodolce in cui ritrae vizi e virtù degli italiani – e, come dice il grande regista Fernando Di Leo, quando si vorrà comprendere la società italiana dell’epoca si guarderà proprio alla commedia. Il cinema di Risi è in grado però di spaziare anche nel dramma gotico (Anima persa, Fantasma d’amore) e nei film d’impegno socio-politico come il capolavoro imprescindibile In nome del popolo italiano (1971): avvalendosi dell’eccezionale coppia Tognazzi – Gassman, Risi costruisce un monumento di denuncia sempre attuale, in cui la componente più impegnata si sposa elegantemente con la narrazione “popolare” e quasi grottesca tipica del regista.

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La vicenda

Il magistrato Mariano Bonifazi (Ugo Tognazzi), schifato dalla società sporca e corrotta, individua nell’imprenditore fascistoide Lorenzo Santenocito (Vittorio Gassman) un simbolo dei mali che vuole combattere. Il grande industriale, ammanicato con importanti uomini politici, si dedica infatti a speculazioni e truffe senza che nessuno possa incriminarlo. Indagando sulla morte di una ragazza, Bonifazi scopre trattarsi di una prostituta che Santenocito conosceva bene: vista la sua reticenza e mancanza di alibi, il magistrato inizia a sospettare proprio di lui. Nonostante entri in possesso di un diario che dimostra la morte per suicidio della giovane, Bonifazi decide cinicamente di distruggere la prova, in modo da poter arrestare l’imprenditore e “fare giustizia” per i suoi misfatti.

Narrazione e stile

Molti film dell’epoca sono rimasti attuali e continuano a insegnare, ma pochi come In nome del popolo italiano sono risultati così profetici e anticipatori di fatti che riscontriamo continuamente al giorno d’oggi: imprenditori e politici corrotti, magistrati che vi indagano, accuse di “persecuzione ideologica”, dissertazioni sui limiti della giustizia. Non è necessario fare nomi per capire come Risi fosse audace e in anticipo sui tempi. Basandosi su soggetto e sceneggiatura di Age e Scarpelli (coppia storica del cinema italiano), dirige in maniera solida e appassionante una storia che contiene davvero molto, e lo fa con il suo stile peculiare. Differente dall’astrazione di Petri, dal semi-documentarismo di Rosi e dalla spettacolarità di Damiani (solo per citare tre fra i più importanti registi “di denuncia”), Risi confeziona una messa in scena che richiama in parte quella agrodolce delle sue commedie, unendola con rigorosi dialoghi drammatici e con un pizzico di grottesco attraverso situazioni volutamente sopra le righe.

In certi momenti del film si sorride (a denti stretti) per le battute sarcastiche di Tognazzi, ma l’atmosfera che si respira è sempre plumbea, da vero film di denuncia. Perché questo è l’obiettivo di Risi: mettere in luce i problemi e le contraddizioni della situazione giudiziaria, politica ed economica italiana. Al centro della vicenda da un lato c’è la corruzione (collusione fra imprenditori e politici, speculazioni, inquinamento, sfruttamento della prostituzione); e dall’altro c’è la “Giustizia”, la cui statua rappresentativa crolla all’interno del tribunale come metafora di un sistema giudiziario in crisi. Quella giustizia che Bonifazio ha giurato di servire “in nome del popolo italiano”, la stessa società di cui però ha disgusto; e proprio quella giustizia di cui Santenocito si fa continuamente beffa grazie alla sua posizione al di sopra di ogni sospetto. Giustizia e ingiustizia non godono però di una distinzione così manichea come potrebbe sembrare: che cosa si è disposti a fare pur di far trionfare la legge? Tognazzi, anche se tormentato e indeciso, decide di dar fuoco al diario che scagionerebbe il suo rivale, in modo da incriminarlo e punirlo per tutti gli altri misfatti di cui non ha potuto trovare le prove. Ma è vera giustizia questa, o il giudice vi si pone al di sopra? Perché, alla luce della conclusione, avrebbe persino ragione il corrotto imprenditore quando accusa il giudice di “persecuzione ideologica”. Ecco quindi che Risi non solo delinea un preciso ritratto di un’Italia a tinte fosche, ma pone quesiti sulla natura stessa della giustizia e del potere di cui dispone la magistratura.

I due grandi mattatori della commedia all’italiana, Tognazzi e Gassman, sono in grado di immedesimarsi nei ruoli drammatici – per loro abbastanza insoliti ma non troppo, visto che non è l’unica escursione fuori dal genere. Protagonisti indiscussi del film, attorno a cui ruotano tutti i caratteri a latere, danno vita a performance e duetti indimenticabili: come solo i grandi attori sanno fare, si immedesimano carnalmente nei due personaggi e recitano con una verve tonante i minuziosi dialoghi, densi di significato e impressionanti per il loro acume e attualità. È un confronto/scontro fra titani, sia nella storia narrata sia – metaforicamente – fra i due “mostri sacri” del cinema italiano: una contesa da cui nessuno esce vincitore, né il corrotto Santenocito né l’irreprensibile Bonifazi. I dialoghi sono pregni di elementi sociologici e politici mai banali, riguardanti tutto ciò che si è detto prima (giustizia e corruzione, ma anche posizioni politiche) e a volte inseriti in un contesto volutamente grottesco: vedasi Gassman che – prelevato da un ambiguo festino – si reca in caserma vestito da antico romano, oppure il memorabile confronto fra il medesimo e Tognazzi seduti su una spiaggia deserta. Altri momenti di gradevole esagerazione sono la voce fuori campo che declina senza sosta i lunghissimi incarichi di cui è depositario l’imprenditore (un momento quasi “fantozziano”, verrebbe da dire), la follia conclusiva di Gassman che urla la sua rabbia contro il mondo sfociando nel delirio, e le scene con l’attore e poeta Checco Durante nel ruolo di un archivista, costantemente ripreso mentre recita poesie in rima. Nei dialoghi però non c’è mai posto per la risata (se mai, un amaro sorriso) ma solo per la riflessione, e le occhiate alla commedia convivono armoniosamente con momenti più drammatici (prevalenti): ricordiamo la dura sequenza in cui Gassman fa rinchiudere in manicomio l’anziano padre colpevole di non aver appoggiato il suo alibi fasullo. Risi, come di consueto, non si esime dal ritrarre vizi e virtù degli italiani: vedasi il finale con il popolo chiuso in casa a guardare l’immaginaria partita Italia-Inghilterra per poi riversarsi in piazza a festeggiare la vittoria, i genitori della ragazza morta che ignorano ingenuamente la sua attività di prostituta, la tirannica moglie di Santenocito (Yvonne Fourneaux) oppure l’avvocato (Renato Baldini) che supplica Tognazzi di riprendersi l’ex-moglie ora sposata con lui. A rendere il tutto ancora più appassionante è la sotto-trama “gialla”, con le indagini di Bonifazio sulla morte della giovane Silvana (Ely Galleani) che dà il via a tutta la vicenda.

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