Scrivere di un progetto che è nella testa di una donna di ventotto anni, vista ancora dai più come una ragazza, ma che nell’idea creativa, nella predisposizione d’animo, nell’intenzione è donna fatta e finita, è sempre piacevole, soprattutto in un periodo come questo dove “alcuni eletti” pensano a cose frivole, nemmeno banali.
Il suo progetto, la sua utopia, è poter vivere da africana in un paese africano. Un sogno fricchettone, che stona con la prima evidenza: il colore della pelle, e la condizione di “privilegiata” tipica degli occidentali, ma che si sposa con le esperienze di chi in Africa vive da africano pur con la pelle bianca e senza essere discendente di qualche “afrikaans”, i bianchi africani nipoti delle colonie europee olandesi, belghe, tedesche, francesi, inglesi.
Lei vorrebbe essere “africana”, vorrebbe farsi colonizzare, sapendo che tutto le potrebbe pesare sulle spalle, anche il suo essere «nata involontariamente nel nord Italia, visto che i miei genitori nemmeno sono di qui», perché se non puoi decidere dove nascere è certo che puoi decidere dove vivere, anche avendo paura di farlo. E dove poter rinascere se non in Africa? Il continente raccontato da Ettore Scola nel suo “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? “. Il continente descritto in alcuni dei “49 racconti” e raccontato in “Le verdi colline d’Africa” di Hemingway. Il sogno dei “negri” sudamericani di Amado in “Mar Morto”.
Tutto nasce dalla terra e alla terra ritorna, e l’Africa è la terra.
Irene ha conosciuto il Burundi, un paese al centro del continente, compreso tra i due tropici, a sud dell’equatore, nell’angolo destro a nord del lago Tanganyka. Un paese all’angolo, appoggiato tra il grande Congo e la Tanzania.
Il Burundi, un paese che non è povero per scelta ma per destino. Lontano dai minerali preziosi, al di fuori dalla tratta degli schiavi, con una densità di popolazione pari a 290 abitanti per Kmq e con una popolazione urbana al di sotto del 20% della sua totalità (dati Unicef del 2012).
La storia di questo paese è piuttosto articolata e ricade nel dramma africano: colonizzazione, indipendenza, guerra civile per il potere che vede contrapposti signori della guerra a eserciti più o meno regolari, di più o meno volontari. Le vittime come sempre i civili indifesi: donne e bambini.
Senza addentrarci oltre in dettagli drammatici e reali, che invito ad approfondire liberamente, ci spingiamo verso gli altopiani a 1.800m slm, nella provincia di Bururi dove Chadrack e Théophile vivono con un toro e dove Irene vorrebbe attuare il suo progetto di sviluppo locale, lavorando direttamente in cooperazione e senza la tutela di una Ong, da africana.
Chadrack e Théophile vivono lavorando per il vescovado di Bururi. Ma le Ong? Alcune cooperano con il territorio riducendo al minimo i rapporti con tramiti istituzionali, coinvolgendo la curia con cui si può collaborare senza difficoltà, per poter evitare sprechi di risorse; altre preferiscono appoggiarsi alla “tradizione” locale dove il ricco è ricchissimo e il povero è poverissimo, lavorando a stretto braccio con la parte alta della società, ma perdendo il contatto con persone come Chadrack e Théophile.
Per questo l’idea di Irene risulta essere avveniristica in tempi in cui le istituzioni, che oggi conosciamo come tali, hanno perso la loro capacità di essere avveniristiche, arrivando a convivere con situazioni sedimentate, che andrebbero estirpate, e che bruciano risorse economiche fondamentali per poter sostenere il percorso verso l’indipendenza economica di una popolazione estremamente povera.
Chadrack e Théophile sono lontani dalle polemiche e vivono cercando di mandare più soldi possibili a casa per mantenere famiglie di 5 o 6 persone – perché senza preservativo ti affidi al fallibile Ogino-Knaus e la prole aumenta – spendendo 8€, di quei 20€ che si guadagnano, per raggiungere moglie e figli.
Vivere l’Africa da africana, stare in Burundi da burundese, con la paura e i rischi che ne conseguono.
La realtà per quanto dura offre sempre una scappatoia e allora diventa fondamentale anche un detto come “aiutati che Dio ti aiuta” consapevole che dio in questo caso è il tuo destino, che se alimentato si apre con il suo ventaglio di opportunità. E tu allora ti aiuti, sapendo che volendo potrai trovare quelle risorse economiche per provare a costruire qualcosa.
Irene, involontariamente nata qui, ha deciso di sfruttare questa occasione. Da quando è tornata si applica per trovare quei pochi euro da investire nell’acquisto di due mucche, per la costruzione di un forno e vivere di attività agricola. lo fa come se stesse sopravvivendo, perché come dice Gino Martini in “Cari fottutissimi amici” di Mario Monicelli “Forse sopravvivere è meglio di vivere”.
Ho conosciuto questa visione per caso, in una domenica scanzonata, fatta di pranzo, vino e mercatino. Ci siamo confrontati su alcune cose e subito ho ammesso a me stesso che questo era un grande progetto, più di quelli che realizziamo con l’associazione. Perché? La sua superiorità non sta nella quantità dei risultati che si prefigge ma nella qualità di quel singolo risultato. In questo non c’è nulla di fricchettone, non c’è niente di sbagliato, non c’è superbia. È un’idea che nasce da un istinto, che si spinge verso una visione, e che porta una persona a lavorare seriamente per la sua realizzazione.
Irene ad agosto “scenderà” in Africa per starci, per comprare due mucche, costruire un forno e mettere in pratica quello che ha imparato lavorando di notte in una panetteria a Bergamo.
Ogni rivoluzione parte da un’azione, e andare in Africa per diventare africana, da donna, lasciandosi colonizzare, volendo provarci fino in fondo, senza costruire false speranze ma provando a darsi delle speranze, è l’azione di questa persona. Se la sua piccola (apparentemente) rivoluzione andasse in porto sarebbe un precedente destabilizzante.
Cara lettrice, caro lettore, per ulteriori approfondimenti o per sostenere il progetto puoi scrivere a: ireneperlasca@gmail.com.