Il gioco e la fiaba: approcci alla realtà

Genitori che scrivono fiabe

Proprio questa mattina una cara amica mi telefona, era ancora presto, mi stavo facendo la barba, e guardando dalla finestra mi rallegravo del sole e dell’azzurro dei cielo e di un’ape che, tenace, stava aggrappata alla spalla della finestra, godendosi finalmente il sole di questa ritardataria e già fuggitiva primavera.
Dopo l’informazione operativa per la quale mi aveva chiamato, l’amica aggiunge che recentemente ha seguito con interesse su You Tube alcune interviste e conferenze del filosofo Umberto Galimberti che hanno riproposto in lei questo interrogativo: se tutto è razionale, se ha valore solo ciò che è efficiente e funzionale cosa ne resta del sogno?

E precisa: togliere all’uomo il sogno è come togliere ad un bambino il suo giocattolo !

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Mi ha colpito la bellezza di questa frase e la fragilità della parola: “giocattolo”. Così come fragile è il sogno. E, dunque, come si può privare un bambino del gioco, di un semplice oggetto con il quale egli costruisce il mondo, rivive e reinterpreta le relazioni, conosce e sperimenta i propri sentimenti, anche quelli aggressivi e distruttivi che altrimenti tenderebbe a negare chiudendo in questo modo lo spazio della propria consapevolezza e della propria identità.
Il gioco è un modo per mediare con la realtà, per entrare in essa standone ancora un po’ fuori. La realtà con cui il bambino viene a contatto per mezzo del gioco è spesso la realtà più vera. Attraverso la simbolizzazione espressa per mezzo del gioco il bambino sperimenta le dinamiche profonde che concernono il rapporto che egli ha con l’altro – genitori, fratelli, coetanei, mondo esterno -, con le proprie pulsioni e desideri e vivendone le emozioni può, dando loro un nome, imparare a riconoscerle.
È in questo luogo, allo stesso tempo, immaginario e simbolico che il gioco e la fiaba si incontrano.

Per questo è bello raccontare fiabe ai bambini ed è forse anche per questo che ci sono genitori che si dedicano alla scrittura di fiabe.
Daniel Pennac diceva che “una delle funzioni essenziali delle fiabe è quella di introdurre una pausa nella lotta degli uomini”. Questo pensiero segnala l’importanza della parola e dell’effetto di distanziamento dai vissuti angoscianti o paurosi ma anche da quelli intensamente gioiosi che essa ottiene attraverso la loro nominazione. La parola permette di approcciarsi ad essi, senza esserne travolti. Essa, in quanto processo simbolico rappresenta un punto di salvaguardia contro il passaggio all’atto; cioè lo scatenamento aggressivo, incontrollato e improvviso, che sorprende il suo stesso autore e del quale egli stesso non sa dare una spiegazione.
La psicanalisi e Lacan in particolare sottolineano la fondamentale importanza della parola, quindi del simbolico, rispetto all’invadenza apparentemente senza senso, e perciò angosciante e traumatica, del pulsionale.

La favoletta “Il granello di sabbia e la stella del cielo”, di cui sono tratte le illustrazioni di questo articolo, ne è un buon esempio, in quanto offre diverse possibilità di interpretazione e di risonanza interiore, aldilà del tema definito psicanaliticamente della castrazione simbolica; realtà dolorosa alla quale necessariamente ogni bambino si trova chiamato a confrontarsi e a superare.

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Sicuramente una delle motivazioni che spinge un adulto ad inventare favole è da ricercarsi nel desiderio di protezione che egli avverte nei confronti del piccolo. Attraverso il racconto fantastico egli cerca di aiutare il bambino ad entrare coraggiosamente nel mondo, ad affrontarne le difficoltà e le insidie. Questa comprensibile preoccupazione genitoriale spinge a dare al racconto favolistico un esplicito valore didascalico. Intento, a dire il vero, piuttosto inutile. Serve a poco. Lo ricorda Bruno Bettelheim il quale diceva che l’elaborazione che il bambino fa della fiaba ascoltata non è prevedibile ed avviene secondo tempi e modi che appartengono ad ogni singolo soggetto, in modo conscio o inconscio. Noi sappiamo, però, che la verità si manifesta più attraverso la seconda che la prima modalità. Gli intenti educativi, pur meritevoli, agiscono quasi sempre a livello conscio, razionale, ignorando quindi la soggettività, ovvero le domande e i bisogni latenti, cioè quelli più veri del singolo individuo e quindi del bambino. Su questo argomento si innesta il tema dell’educazione, con gli affanni e le discussioni ad essa collegati e che concernono ad esempio l’educazione sessuale, l’educazione emotiva, e l’educazione tout court. Operazioni utili e necessarie per una convivenza ed un rispetto umano individualmente e socialmente positivi ma non si pensi che queste siano risolutive dei bisogni e dei desideri e della possibilità di rispondere ad essi, perché ogni soggetto, singolarmente, è chiamato a dare ad essi la propria risposta, interrogando i propri desideri, la propria storia, i propri sogni.

È questo a mio parere il punto che si rivela critico allorché la fiaba persegue dichiarati obiettivi didascalici, ovvero educativi. Sappiamo bene che la migliore educazione è quella data dall’azione e non dalla parola, cioè da quello che i maestri di un tempo chiamavano il “buon esempio”, il quale però si rivela nella spontaneità, nella autenticità, non nell’atto pensato e realizzato come educativo. Su questo punto Lacan è piuttosto sferzante e chiaramente critico rispetto ad una funzione educativa paterna che sia sotto il segno delle belle parole, dei buoni principi, della morale insegnata.
Per tali motivi è bene che il racconto fantastico risuoni libero nel bambino, il quale inconsciamente gli attribuirà un senso, una risposta sua propria.

La favoletta “Il granello di sabbia e la stella del cielo”, di cui sono tratte le illustrazioni di questo articolo, ne è un buon esempio, in quanto offre diverse possibilità di interpretazione e di risonanza interiore, aldilà del tema definito psicanaliticamente della castrazione simbolica; realtà dolorosa alla quale necessariamente ogni bambino si trova chiamato a confrontarsi e a superare.

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Quasi tutti i genitori hanno vissuto l’esperienza del raccontare al proprio figliolo, prima che questi si addormenti, una fiaba, la sua fiaba preferita. Avranno altresì notato come il piccolo sia prontissimo, mentre il genitore con le palpebre appesantite dal sonno ripete la solita storiella, a richiamarlo per la parola indebitamente sostituita, per la variazione introdotta rispetto al testo consolidato della fiaba.
Il bambino, infatti, vuole sentirsi raccontare sempre la stessa storia, sempre uguale, con le medesime parole ma non solo perché questo lo rassicura prima di quel momento non facile che è l’addormentarsi ma anche perché in quel passaggio, in quella immagine del racconto il bambino sente inconsciamente riecheggiare e soprattutto sente soddisfare un vissuto, una pulsione, una paura suoi propri e non gradisce che ciò non avvenga.

Mario Tintori
Psicologo Psicoterapeuta
www: psicologo.bergamo.it

LA FAVOLETTA ALLA MIA BAMBINA di Umberto Saba



Non pianger bimba, non t’accrescer pene;
 da sé ritorna, se torna, il tuo bene.

 Un merlo avevo, coi suoi occhi d’oro
cerchiati, col palato e il becco d’oro;
 cui di pinoli e di vermetti in serbo
nascondevo un tesoro.
 Schivo con gli altri; con me, di ritorno
dalla scuola, festoso; e tutte, io dico,
 intendere sapeva il caro amico
le mie parole; onde il dolce e l’acerbo
di due anni a lui dissi, a lui soltanto.
E un giorno mi fuggì; fuor del poggiolo
mi fuggì nella corte. Alto il mio pianto,
alto suonava; alle finestre intorno
corse la gente ad affacciarsi; invano
lo perseguivo, il caro nome invano
ripetevo; di tetto in tetto errando,
più sempre in vista piccolo e lontano,
irridere pareva al grande mio
dolore, al disperato dolor mio.

Quel che ho sofferto non puoi bimba tu
saperlo; tutto era perduto; e quando
io non piangevo, io non speravo più,

l’alato amico ritornò egli solo
alla sua casa, all’esca d’un pinolo.

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