In fondo al bosco (2015) di Stefano Lodovichi

Intorno al film

Il genere thriller in Italia non conosce un periodo molto fertile ormai da anni – come un po’ tutti i “generi” del resto – ma ci sono alcune felici eccezioni: il ritorno dei maestri anni Settanta e Ottanta quali Lamberto Bava (The torturer), Pupi Avati (Il nascondiglio), Aldo Lado (Il Notturno di Chopin), Ruggero Deodato (Ballad in blood) e Luigi Cozzi (Blood on Melies’ Moon), oltre a qualche sporadica riapparizione di Dario Argento; i nuovi maestri, in un certo senso eredi della tradizione, come Federico Zampaglione (Tulpa) e Luigi Pastore (Come una crisalide); il cinema indipendente in senso stretto, che fra risultati alterni riesce a creare film interessanti. Il 2015 è stato un anno un po’ avaro nel genere thriller: oltre agli indi The transparent woman, Stalking Eva, Hope lost e Violent shit di Pastore (magnifico, ma più un horror puro che un thriller), spicca la produzione di Sky Cinema In fondo al bosco di Stefano Lodovichi. Uscito nelle sale il 29 novembre 2015, è stato trasmesso lo scorso 13 marzo in prima visione su Sky, che è appunto co-produttore insieme alla One More Pictures. Trattasi dunque di una produzione abbastanza grossa, che Lodovichi dirige con mano sicura creando un film riuscito e inquietante per l’abile fusione fra thriller, dramma psicologico-familiare ed elementi horror. Scrive la storia lo stesso regista insieme a Isabella Aguilar e Davide Orsini.

infondoalbosco

La vicenda

In una notte d’inverno del 2010, un paesino della Val di Fassa sta festeggiando la tradizionale festa dei Krampus in cui gli abitanti si travestono da diavoli. Il piccolo Tommaso Conci si allontana spaventato e scompare nel nulla: le indagini portano all’arresto del padre Manuel (Filippo Nigro), accusato di omicidio e occultamento di cadavere visti i suoi precedenti di alcolista e maltrattamenti familiari; tuttavia le prove non sussistono e l’uomo viene scarcerato, ma di Tommaso nessuna traccia. Cinque anni dopo, a Napoli, due operai trovano in un cantiere un bambino abbandonato: l’identikit corrisponde a quello di Tommy, così il piccolo viene portato al suo paese e gli esami del DNA dimostrano in maniera certa che si tratta proprio di lui, anche se il piccolo non ha documenti e non parla. Mentre il padre lo accoglie con gioia, la madre Linda (Camilla Filippi) manifesta ostilità e diffidenza: lei, come il nonno materno, è convinta che non si tratti di suo figlio, ipotesi avvalorata dal comportamento strano del nuovo arrivato. Il vecchio è convinto addirittura che si tratti di una creatura diabolica. Manuel è in crisi con la moglie da anni, e nonostante tutto continua a riconoscerlo come suo figlio, fino a quando un ragazzo psichicamente disabile dice di sapere qualcosa: le indagini dell’uomo lo porteranno a una verità sconcertante.

Narrazione e stile

Leggendo la trama, la prima idea di chi scrive è che In fondo al bosco si possa considerare una sorta di Goodnight mommy “al contrario”. Questo splendido thriller (para)psicologico austriaco del 2015 ha infatti come protagonista una donna che, dopo un’operazione al viso, non viene più riconosciuta come madre dai suoi due bambini: claustrofobico, agghiacciante, quasi interamente ambientato in una casa, descrive la tesissima evoluzione del rapporto fra questa donna dal viso bendato a mo’ di mummia e i due misteriosi figli fino a una serie di geniali colpi di scena. In fondo al bosco richiama un po’ questa situazione, ribaltandola, anche se in un contesto e in una trama completamente differenti: Goodnight mommy è superiore (soprattutto come estetica), ma anche il film di Lodovichi riesce ad innalzarsi sopra la media sapendo coinvolgere e inquietare lo spettatore. Rispetto al thriller austriaco, qui giocano un’importanza fondamentale gli esterni, cioè gli ampi scenari innevati della Val di Fassa, che lungi dall’essere un luogo di bellezza e serenità si trasformano in un ambiente ostile e agorafobico, dove la minaccia e il mistero sono sempre in agguato. Il regista toscano Stefano Lodovichi si cimenta qui nel suo terzo lungometraggio, dopo il documentario collettivo Il pranzo di Natale e l’audace dramma erotico Aquadro, oltre a svariati cortometraggi: se l’aspetto estetico si rivelerà essere il punto più debole del film, nulla da eccepire invece per quanto riguarda la regia, in grado di fondere l’elemento giallo con quello esoterico e con una robusta componente psicologica; In fondo al bosco è un film ricco di elementi, che ha tanto da dire (e da suggerire), pur nella sua ora e mezza scarsa di durata. Come scrive Marco Cacioppo su Nocturno, è “Un giallo sociale reminiscente di tanti casi di cronaca nera, dal delitto di Cogne alle Bestie di Satana”; in effetti, l’opera di Lodovichi rimanda esplicitamente alle numerose tragedie riguardanti sparizioni e/o omicidi di bambini, e la tendenza del cinema (thriller, in questo caso) a ispirarsi alla realtà è frequente: anche il suddetto Ballad in blood di Deodato, per esempio, è parzialmente ispirato all’omicidio di Perugia, o se andiamo indietro agli anni Ottanta e Novanta sono stati diretti almeno tre film sul “Mostro di Firenze” (il più celebre è proprio Il Mostro di Firenze di Cesare Ferrario). Sull’aspetto etico di operazioni di questo tipo si potrebbe disquisire a lungo in altra sede, ma qui ci si concentra sulla componente squisitamente cinematografica.

Se da un lato c’è questo aspetto più da thriller forense, Lodovichi ha anche il merito di basare la storia su un elemento colto e non molto conosciuto della cultura popolare, cioè il Krampus. Trattasi di demoni della mitologia tedesca, il “lato oscuro” delle feste natalizie, uomini-caproni che secondo le leggende si aggirano di notte per rapire i bambini cattivi e che in tempi remoti furono sconfitti da San Nicolò (Santa Claus). La tradizionale festa dei Krampus si svolge la sera del 5 dicembre, prevede una sfilata di uomini mascherati da diavoli ed è ancora oggi molto diffusa non solo in Germania ma anche in alcune zone dell’Italia, specialmente in Trentino. Proprio qui, nella Val di Fassa, è ambientato il nostro film, che nella sequenza iniziale ricrea un momento di tale festa: particolarmente efficace è il punto di vista utilizzato, cioè quello del bambino, che si trova di fronte a questi mascheroni e ne rimane terrorizzato, convinto di aver visto un demone. Come indica la didascalia iniziale, la leggenda vuole infatti che tra i Krampus si nasconda il diavolo in persona che rapisce i bambini – ipotesi resa ancora più terrificante da quanto viene detto, cioè la reale sparizione di alcuni piccoli non più ritrovati. Un inizio davvero spaventoso, un brivido creato da quel qualcosa di perturbante che solo le leggende e il folklore riescono a produrre: le storie da focolare sono da sempre uno dei territori più fertili e spaventosi per il cinema thriller e horror, in quanto rimandano a qualcosa di primigenio e perturbante che si nasconde dentro l’apparente quotidianità; per rimanere in Italia, pensiamo al gotico padano di Pupi Avati e al suo “erede” Lorenzo Bianchini (Custodes Bestiae, Oltre il guado), con cui In fondo al bosco ha alcuni punti in comune.

Dopo l’incipit, l’elemento folkloristico/esoterico viene momentaneamente accantonato per essere ripreso in seguito attraverso una serie di sequenze niente affatto banali, che affiancano alla soluzione razionale una suggestione misterica in grado di rendere il tutto ancora più inquietante. La misteriosa scomparsa del piccolo Tommaso dà il via a una serie di concitate scene in salsa pseudo-cronachistica, con tanto di ricostruzioni del TG di Sky che annunciano l’arresto e la successiva liberazione del padre, le dichiarazioni degli inquirenti e dei testimoni, come in un giallo processuale. Ciò che segue, pur avendo alcune caratteristiche del legal-thriller (le indagini della polizia, il test del DNA), si discosta abbastanza dalla rigorosità del genere, per adottare uno sguardo più intimista e psicologico sul “nuovo” Tommy, la sua famiglia e una serie di personaggi a latere. Con un balzo temporale di 5 anni, la regia sposta infatti l’azione sul ritrovamento in un cantiere di un misterioso bambino che sembra coincidere con l’identikit dello scomparso: ma non ha documenti, non parla, non riconosce i genitori, si comporta in modo ostile e persino violento (uccide con un coltello il cane di famiglia, che sembrava non riconoscerlo), e non si sa come sia arrivato così lontano né quali traumi abbia subito. Il bambino è da sempre una tra le figure più inquietanti del cinema thriller e horror (dai classici Operazione paura, The Omen e Shining ai recenti film sui fantasmi giapponesi, passando per i piccoli ma feroci assassini di Grano rosso sangue), a causa della sua apparente innocenza che può nascondere un lato diabolico, che qui si fonde con un altro topos del cinema di paura, cioè il familiare che diventa estraneo – insomma, il massimo dell’effetto perturbante, con un enfant terrible che richiama quelli del Sesto senso e del recente Babadook. Un po’ come le persone possedute dagli Ultracorpi alieni di Siegel e Ferrara o come la protagonista del suddetto Goodnight mommy, il nuovo arrivato è e al contempo non è il Tommaso che tutti erano abituati a conoscere (viene in mente anche il buon horror messicano Here comes the devil) – non solo psicologicamente, ma anche fisicamente essendo passati cinque anni, il che rende impossibile un’identificazione certa. Nonostante il DNA non lasci dubbi e il padre lo accolga con gioia senza nessuna esitazione (forse per i sensi di colpa dovuti al suo difficile passato), la madre – a sua volta sofferente di disturbi psichici – continua a sostenere che non si tratti di suo figlio. Tanto più che il nonno, superstizioso e molto legato alla leggenda dei Krampus, crede si tratti di una creatura demoniaca: e in un paio di sequenze lo spettatore è portato persino a crederci, quando in chiesa il bambino sta male e vomita e quando compare alla madre in camera sotto forma di mostruoso demone (incubo, allucinazione o “realtà”?). Tutto è circondato da un fitto alone di mistero: non si sa da dove venga il bambino né se sia effettivamente lui, tante ipotesi sono possibili, e alcuni personaggi di contorno sembrano sapere qualcosa di più: un minorato mentale (anche lui vede il bambino come il diavolo), suo fratello e la babysitter di cinque anni prima. E proprio da loro iniziano le indagini del padre, in una serie di colpi di scena che svelano un retroscena davvero agghiacciante. Alla fine ci sarà una spiegazione razionale a tutto, eppure Lodovichi lascia volutamente un alone di mistero sulla vera identità del nuovo venuto che rende il tutto ancora più inquietante.

In tutto questo, il dramma psicologico e familiare non è assolutamente secondario, anzi è una delle basi del film che lo rende così originale insieme all’aspetto giallo e folkloristico. Manuel, il padre, è interpretato dal bravissimo Filippo Nigro, uno fra i migliori attori della nuova generazione italiana: dai drammi di Ferzan Őzpetek alle commedie e serie-tv, è divenuto celebre soprattutto per il ruolo del celerino “Cobra” nel potentissimo dramma poliziesco ACAB di Stefano Sollima, dove interpretava un duro poliziotto non esente da problemi familiari. Qui emerge tutta la sua vena più profonda e drammatica, in questo ruolo difficilissimo di un padre alle prese con una situazione incredibilmente tragica e complessa. Altrettanto efficace è l’attrice che interpreta la madre, Camilla Filippi (La meglio gioventù, Viva l’Italia, ma anche tanto teatro e televisione), mentalmente fragile, con un matrimonio distrutto e segnata da vari tentativi di suicidio: un aspetto importante della vicenda, che si rivelerà fondamentale anche per la risoluzione del mistero, è il suo rapporto extra-coniugale con il commissario di polizia (Stefano Detassis). Lodovichi analizza con uno sguardo intimista tutta la complessa situazione familiare, unendo abilmente l’aspetto giallo con il dramma psicologico. Oltre ai due piccoli attori che interpretano Tommaso a cinque anni e il presunto Tommaso a dieci, spiccano due caratteristi nei ruoli inquietanti del nonno (Giovanni Vettorazzo) e del giovane psicolabile Dimitri (Luca Filippi).

Come si accennava in precedenza, l’aspetto più debole di In fondo al bosco è la confezione estetica: intendiamoci, è tutto molto professionale, la fotografia di Benjamin Maier è efficace (soprattutto negli esterni), eppure in certi momenti soffre di un coté troppo televisivo. Le immagini, gli interni, la durata ridotta del film risentono forse del fatto di essere una co-produzione televisiva di Sky, pur essendo un film approdato in sala, anche se tale ipotesi va presa con le pinze visto che molte serie-tv Sky (pensiamo a Romanzo criminale e Gomorra di Stefano Sollima) sono squisitamente cinematografiche, più di molti film che vediamo al cinema. Visivamente, diciamo che è stato fatto un “compitino” da scuola di cinema, senza slanci stilistici particolari, il che non inficia comunque l’efficacia narrativa del prodotto: esteticamente ci sono però alcune sequenze notevoli come l’incipit nella festa dei Krampus, la claustrofobica scena in chiesa, il flashback ambientato nella baracca e le sequenze sulla neve, e cromaticamente spiccano il contrasto fra il bianco dei paesaggi, i colori caldi delle baite di legno e i lampeggianti blu della polizia; un po’ più freddi e televisivi, invece, gli interni in casa e negli uffici.

La colonna sonora

La colonna sonora di In fondo al bosco è abbastanza minimalista: non c’è un tema portante, una melodia che ti resta in mente, ma comunque sentiamo un impasto sonoro affascinante. Composta da Riccardo Amorese, è un insieme di sonorità suggestive e funzionali alla rappresentazione delle atmosfere: tra suoni stridenti, altri più gravi, altri ancora più delicati e malinconici, la colonna sonora contribuisce in buona parte all’inquietudine che la pellicola riesce a generare.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *