Io ho paura (1977), il "capolavoro nascosto" del maestro Damiano Damiani

Intorno al film

Lo scorso 7 marzo si è spento, all’età di 90 anni, uno dei più grandi maestri del cinema italiano (e non solo): Damiano Damiani. Una carriera lunga ed eterogenea quella del regista di Pordenone, che ha trovato il suo stile peculiare nel felice connubio fra “impegno” e “spettacolo”. Fra i numerosi grandi film diretti, stranamente i suoi due veri capolavori sono anche i meno conosciuti (un fatto, a dire il vero, non tanto raro nel cinema): Io ho paura e Goodbye & Amen, entrambi del 1977. Se il secondo ha goduto però di vari passaggi televisivi e di un’ottima edizione in dvd (CG Home Video, collana Cinekult), Io ho paura può invece essere definito il “capolavoro nascosto” del maestro. Distribuito anni fa solo in vhs (oggi rarissima da trovare), è circolato poco anche in televisione: in tempi recenti, è stato trasmesso da Rai Uno, cominciando così a circolare fra cinefili e appassionati, pur non avendo ancora la notorietà che merita.

iohopaura

La vicenda

Italia, anni Settanta. Dopo l’ennesimo attentato in cui un giudice ha perso la vita, il brigadiere di polizia Ludovico Graziano (Gian Maria Volonté) confessa a un suo superiore di aver paura, e viene quindi assegnato come scorta all’anziano magistrato Cancedda (Erland Josephson). Un incarico che sembra relativamente tranquillo, fino a quando il giudice, indagando su un omicidio, scopre una rete terroristica legata ad alcuni ufficiali dei servizi segreti. Quando Cancedda viene ucciso, il poliziotto è incaricato di fare da scorta all’ambiguo giudice Moser (Mario Adorf), che si rivela essere affiliato all’organizzazione eversiva: Graziano deve quindi lottare, solo contro tutti, per salvare la propria vita.

Narrazione e stile

Dopo la fase psicologico-esistenzialista “alla Antonioni” e il grande successo de Il giorno della civetta (1968), la vera svolta nel cinema di Damiani avviene nel 1971, con il bellissimo Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica. Questo film non solo può essere considerato il capostipite del cinema poliziesco italiano, ma rappresenta il raggiungimento pieno della formula tematica e stilistica che sarà alla base di quasi tutte le sue opere successive, cioè il connubio indissolubile fra “cinema impegnato” e “cinema di genere”: un cinema che tratta in maniera profonda e analitica i problemi socio-politici dell’Italia (la mafia, il terrorismo, le carceri), ma lo fa con un taglio spettacolare, senza rinunciare quindi all’azione e a trame accattivanti. Questo avviene già in Confessione (vedasi la sparatoria iniziale, che fa capire come Damiani sia bravissimo anche nel dirigere le sequenze d’azione) e prosegue nei film successivi, raggiungendo lo zenith proprio con Io ho paura.

Nel film in analisi, le sparatorie sono numerose, il ritmo sempre sostenuto, la trama ricca di suspense come in un thriller, fino allo straordinario twist finale all’interno della sala cinematografica. Ma allo stesso tempo le interpretazioni sono intense e degne del miglior cinema d’autore, e Damiani conduce una coraggiosa indagine socio-politica più profonda rispetto a quella di tanti film cosiddetti “impegnati”. Due sono infatti i temi fondamentali di Io ho paura: quello riassunto dal titolo, cioè il poliziotto che veramente “ha paura” (una novità assoluta per il cinema dell’epoca), e il legame fra terrorismo e servizi segreti, dunque fra il terrorismo e lo Stato. Un tema, quest’ultimo, altamente scottante, che incute timore ancora oggi: forse è questo il motivo per cui Io ho paura ha avuto una scarsa diffusione, anche se stupisce il fatto che altri “film-scandalo” di Damiani (per esempio riguardanti le collusioni fra Stato e mafia) siano circolati normalmente.

Gian Maria Volonté, dopo il commissario corrotto e “superomista” di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Elio Petri, 1970), incarna qui con eguale maestria un poliziotto onesto e umile, dimesso e insicuro, sempre in bilico tra voglia di agire e voglia di lasciar perdere, ma che al momento giusto saprà tirar fuori i denti e combattere i suoi avversari (anche se, nell’ultima e amarissima scena, lo vediamo freddato da un’anonima raffica di mitra). Ludovico Graziano è agli antipodi del “commissario di ferro” tipico del poliziesco italiano di quegli anni, “tutto coraggio e niente paura”: ma, d’altra parte, Io ho paura è un poliziesco molto sui generis (come tutti quelli di Damiani), ed è anche questo a renderlo un prodotto così unico. Il critico cinematografico Davide Pulici rileva giustamente che “il valore d’impegno del film si commisura (…) nel disagio serpeggiante tra le forze dell’ordine: per la prima volta in una pellicola italiota i poliziotti sono dotati di una coscienza di classe”. Eccellenti anche gli altri due protagonisti: lo svedese Erland Josephson (interprete di numerosi film di Ingmar Bergman) nell’intenso ruolo del coraggioso e cattolico giudice Cancedda, e il celebre Mario Adorf nella parte del viscido e corrotto magistrato Moser.

L’inizio del film è folgorante, con la preparazione e la realizzazione dell’attentato a un giudice da parte di due terroristi: la dilatazione dei tempi e della suspense, nonché il mirabile piano-sequenza del duplice omicidio (giudice e poliziotto di scorta) sono già una testimonianza sufficiente del genio registico di Damiani. Ma non è l’unica sequenza d’azione del film: oltre al successivo agguato dei due terroristi a Volonté e al suo collega, memorabili sono la sequenza dell’uccisione di Cancedda in casa sua e la sparatoria finale dentro il cinema. Quest’ultima è la conclusione di una lunga parte, assolutamente geniale, costruita con una serie di segrete mosse e contromosse fra Volonté e Adorf, che si sviluppa in un climax crescente fino a esplodere nel memorabile twist conclusivo.

Io ho paura, per tutti i suoi 113 minuti, tiene veramente lo spettatore incollato allo schermo e col fiato sospeso: merito dell’ottima regia di Damiani, ma anche del soggetto e della sceneggiatura, firmate dallo stesso Damiani insieme a Nicola Badalucco (una coppia, una garanzia: sono anche gli artefici dell’immenso e geniale Goodbye & Amen). Fra indizi, sospetti, false piste e colpi di scena, lo spettatore viene posto (dal punto di vista narrativo) sullo stesso piano di Volonté: come lui, si trova proiettato in situazioni misteriose di cui comprende il significato solo un poco alla volta.

La colonna sonora

La colonna sonora è affidata al maestro Riz Ortolani. I suoi temi musicali, garanzia di eccellente qualità, si caratterizzano solitamente per le melodie intense e di ampio respiro (I giorni dell’ira, Non si sevizia un paperino, L’etrusco uccide ancora, Bisturi la mafia bianca, Cannibal Holocaust, solo per citare i più famosi). In questo caso, Ortolani adotta uno stile un po’ diverso: una melodia in cui predominano i bassi ostinati, su cui si contrappunta un tema più ampio che richiama però sempre la stessa base, ottenendo così un ritmo ossessivo. Il risultato è una colonna sonora strepitosa che penetra “sottopelle” nello spettatore, trasmettendo il disagio e il senso di paura che accompagnano il protagonista per tutto il film.

Davide Comotti

Bergamasco, classe 1985, dimostra interesse per il cinema fin da piccolo. Nel 2004, si iscrive al corso di laurea in Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Bergamo (laurea che conseguirà nel 2008): durante gli studi universitari, ha modo di approfondire la sua passione tramite esami di storia, critica e tecniche del cinema e laboratori di critica e regia cinematografica.

Diventa cultore sia del cinema d’autore (Antonioni, Visconti, Damiani, Herzog), sia soprattutto del cinema di genere italiano (Fulci, Corbucci, Di Leo, Lenzi, Sollima, solo per citare i principali) e del cinema indipendente di Roger A. Fratter.

Appassionato e studioso di film horror, thriller, polizieschi e western (soprattutto italiani), si occupa inoltre dell’analisi di film rari e di problemi legati alla tradizione e alle differenti versioni di tali film.

Nel 2010, ha collaborato alla nona edizione del Festival Internazionale del Cinema d’Arte di Bergamo.

Esordisce nella scrittura su “La Rivista Eterea” (larivistaeterea.wordpress.com). Attualmente scrive su ciaocinema.it, lascatoladelleidee.it, mondospettacolo.com. In precedenza, ha curato la rubrica cinematografica della rivista Bergamo Up e del sito di Bergamo Magazine. Ha redatto inoltre alcuni articoli per i siti sognihorror.com e nocturno.it.

Ha scritto due libri: Un regista amico dei filmakers. Il cinema e le donne di Roger A. Fratter (edizioni Il Foglio Letterario) e, insieme a Vittorio Salerno, Professione regista e scrittore (edizioni BookSprint).

Contatto: davidecomotti85@gmail.com

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