Keoma (1976) di Enzo G. Castellari, spettacolare e struggente canto del cigno del western italiano.

Intorno al film

Dopo i fasti degli anni Sessanta, anche il western italiano conosce la sua fase di graduale declino: gli stessi registi sembrano accorgersene, dirigendo, dopo la metà degli anni Settanta, alcuni film che rappresentano “il crepuscolo degli eroi”, traducendo in immagini il tramonto del genere. Si tratta dei cosiddetti “western crepuscolari”, dove viene sgretolato il mito del west(ern), le terre assolate lasciano il posto al fango, gli eroi agli anti-eroi, tutti destinati inesorabilmente alla sconfitta. Capolavoro e simbolo di questi film è sicuramente Keoma (1976) di Enzo G. Castellari, grandioso “canto del cigno” del western italiano (disponibile in dvd nell’eccellente edizione della Cinekult, CG Home Video).

keoma

La vicenda

Il meticcio Keoma (Franco Nero), reduce dalla Guerra di Secessione, torna al paese natale e si trova di fronte a una situazione disastrosa: la cittadina è flagellata dalla peste e dalla tirannia del malvagio Caldwell (Donald O’Brien), che sfrutta i malati facendoli lavorare nelle sue miniere. Per Keoma inizia una guerra contro tutti, anche contro i suoi fratellastri che si sono alleati con Caldwell. Il meticcio può contare solo sull’aiuto dell’anziano padre (William Berger), dell’amico di colore George (Woody Strode) e di una donna (Olga Karlatos) a cui ha salvato la vita.

Narrazione e stile

È curioso il fatto che proprio Castellari, uno dei grandi del western all’italiana negli anni Sessanta, ne reciti il de profundis con questo film di straordinario impatto visivo ed emotivo. In Keoma confluiscono magnificamente la spettacolarità delle sequenze d’azione e “la violenza lirica delle immagini” (Nocturno Cinema).

Non a caso, Castellari è considerato (giustamente) il maestro del cinema d’azione made in Italy, che sviluppa pienamente proprio a partire dagli anni Settanta con un suo peculiare marchio di fabbrica: il ralenti, che enfatizza e dilata quanto accade sulla scena, aumentando l’impatto spettacolare e la crudeltà delle sequenze. L’utilizzo delle immagini al rallentatore (introdotto dal regista americano Sam Peckinpah) nel cinema di Castellari assume anche una valenza personale, oltre che cinematografica: racconta infatti che, in seguito a un grave incidente dove ha rischiato di morire, “in quei momenti le cose sembra che diventino rarefatte e rallentate”. Keoma è probabilmente il film in cui Castellari fa un uso più massiccio di questa tecnica, che è comunque una firma inconfondibile anche in altri suoi capolavori (Il cittadino si ribella, Il grande racket, Quel maledetto treno blindato, solo per citarne alcuni). Le sparatorie al ralenti non si contano, e lo spettacolo è assicurato: dal massacro dei minatori all’inizio, proseguendo con la fucilata nel petto di Massimo Vanni a cavallo, il duello nel saloon fra Keoma e due pistoleri, fino alla celebre sequenza delle “quattro dita – quattro pallottole” e alla resa dei conti fra i tre fratelli e Caldwell (ma ce ne sono molte altre ancora). È importante notare che l’utilizzo sfrenato del ralenti, soprattutto durante le uccisioni, non è un puro elemento spettacolare, ma finalizzato a enfatizzare il senso di morte e disperazione che grava su tutta la vicenda.

Un ulteriore elemento stilistico che caratterizza Keoma è l’utilizzo dei carrelli circolari, che acquistano un particolare valore durante i flashback: non sequenze staccate, ma un’unica inquadratura che parte dal protagonista e si sposta sulla scena dei ricordi.

Keoma è un film crudele e fratricida, anche se la regia non calca troppo la mano sull’aspetto sanguinario: è crudele per la grande quantità di uccisioni che vi troviamo, ma anche per il senso di decadenza, disperazione e morte che permea ogni sequenza. È il tramonto definitivo del mito del Far West, del cinema western e dell’eroe, che diventa un anti-eroe, un outsider in cerca di riscatto, senza terra e senza speranza: un percorso che, a dire il vero, era già cominciato nel 1966 con Django, pellicola fondativa e simbolica del genere, ma allo stesso tempo contenente in nuce già i segni del declino. Django e Keoma presentano infatti più aspetti in comune di quanto possa sembrare: non solo Franco Nero come protagonista, ma anche la città semi-abbandonata, il fango (che si sostituisce agli assolati paesaggi leoniani), il personaggio che arriva dal nulla e nel nulla ritorna, il salvataggio della donna. Forse, tutto questo non è un caso, visto che l’autore del soggetto (Luigi Montefiori) aveva in mente di realizzare una specie di sequel di Django, poi trasformato dalla sceneggiatura (firmata dallo stesso Montefiori insieme a Castellari, Nico Ducci e Mino Roli) e dalla regia in qualcosa di molto diverso. Il clima crepuscolare è reso alla perfezione dalla magnifica fotografia di Aiace Parolin, che valorizza i colori cupi (come il grigio del fango) e crea un’atmosfera tragicamente plumbea.

Franco Nero realizza, con Keoma, una delle interpretazioni più intense di tutta la sua carriera. Ma anche tutti gli altri componenti del cast sono grandiosi: da William Berger e Donald O’Brien (due storici attori del western italiano), a Olga Karlatos e Woody Strode (interprete di celebri western americani come I dannati e gli eroi e L’uomo che uccise Liberty Valance) fino a Orso Maria Guerrini (il fratello maggiore di Keoma). Una menzione a parte la merita poi il grande Wolfango Soldati, nel ruolo del sadico braccio destro di Caldwell: bravissimo attore dal viso molto cinematografico (figlio del famoso Mario Soldati), si trovò purtroppo a interpretare ruoli di secondo piano, ma riuscì a caratterizzare sempre in maniera perfetta tutti i suoi personaggi, solitamente bastardi fino all’osso (in Keoma, ma anche nel thriller Pensione paura e nel film d’autore L’immoralità) oppure ambigui (ottimo in La via della droga, immenso in Goodbye & Amen).

Keoma è un film che vuole anche andare oltre il western, connotando la vicenda con dei tratti fortemente metafisici (vedasi, in particolare, la figura stessa del protagonista, misterioso e quasi ultraterreno, e l’anziana signora che rappresenta la Morte): un western dunque crepuscolare e “metafisico”, ma al contempo terribilmente crudo e struggente.

La colonna sonora

La colonna sonora è firmata dai fratelli Guido e Maurizio De Angelis, autori di musiche strepitose come quelle di Goodbye & Amen e Milano trema: la polizia vuole giustizia. Il tema musicale di Keoma, forse, non è immediatamente orecchiabile come quelli di altri western o dei due polizieschi citati, ma dopo un po’ di ascolti si rivela straordinario. Così come tutto il film non è semplice da “assimilare”, anche la colonna sonora richiede di essere metabolizzata, per poi rimanere impressa indelebilmente: con un ritmo prima lento poi incalzante, accompagnato dalla voce femminile (o maschile, in alcuni momenti), la melodia drammatica è quasi un canto di morte, e trasmette in maniera epidermica il tragico lirismo che accompagna tutto il film.

 

Davide Comotti. Bergamasco, classe 1985, dimostra interesse per il cinema fin da piccolo. Nel 2004, si iscrive al corso di laurea in Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Bergamo (laurea che conseguirà nel 2008): durante gli studi universitari, ha modo di approfondire la sua passione tramite esami di storia, critica e tecniche del cinema e laboratori di critica e regia cinematografica.

Diventa cultore sia del cinema d’autore (Antonioni, Visconti, Damiani, Herzog), sia soprattutto del cinema di genere italiano (Fulci, Corbucci, Di Leo, Lenzi, Sollima, solo per citare i principali) e del cinema indipendente di Roger A. Fratter.

Appassionato e studioso di film horror, thriller, polizieschi e western (soprattutto italiani), si occupa inoltre dell’analisi di film rari e di problemi legati alla tradizione e alle differenti versioni di tali film.

Scrive su “La Rivista Eterea” (larivistaeterea.wordpress.com), ciaocinema.it, lascatoladelleidee.it. Ha curato la rubrica cinematografica della rivista Bergamo Up e del sito di Bergamo Magazine. Ha scritto inoltre alcuni articoli sui siti sognihorror.com e nocturno.it.

Nel 2010, ha collaborato alla nona edizione del Festival Internazionale del Cinema d’Arte di Bergamo.

Ha scritto due libri: Un regista amico dei filmakers. Il cinema e le donne di Roger A. Fratter (edizioni Il Foglio Letterario) e, insieme a Vittorio Salerno, Professione regista e scrittore (edizioni BookSprint).

Contatto: davidecometti85€@gmail.com

 

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