L’ETRANGE COULEUR DES LARMES DE TON CORPS (2013) di Hélène Cattet e Bruno Forzani

I festival cinematografici di tutto il mondo stanno accogliendo con applausi il nuovo e attesissimo film della coppia di registi belgi Hélène Cattet e Bruno Forzani, Laissez bronzer les cadavres (2017), un noir/thriller con echi da western contemporaneo, un mix di generi rivisitati con il loro inconfondibile tocco allucinato e psichedelico. In attesa di vedere anche in Italia questo gioiello, rivediamo il loro precedente capolavoro, L’étrange couleur des larmes de ton corps (The strange colour of your body’s tears, Belgio, Francia e Lussemburgo, 2013).

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Dopo lo stupefacente esordio con Amer (2009), Cattet e Forzani portano avanti la rivisitazione artistica di temi ed estetiche provenienti dal thriller italiano anni Settanta: si inseriscono cioè, in modo del tutto personale, nella corrente cinematografica nota come “neo-giallo”, trasformando il genere in qualcosa d’altro, un’opera d’arte ipnotica che recupera la concezione primigenia del cinema come pura immagine. Anch’esso presentato e premiato in vari festival di tutto il mondo, è sbarcato nell’homevideo italiano grazie all’eccellente edizione (dvd o bluray) della Midnight Factory, insieme ad Amer.

È difficile dire se Strange colour sia migliore di Amer – chi ama il genere apprezzerà entrambi – ma sicuramente Cattet/Forzani compiono un ulteriore passo avanti nell’estremizzazione del linguaggio cinematografico. Perché, in entrambi i film e nei cortometraggi, ciò che interessa ai due registi è innanzitutto l’immagine, l’estetica, la creazione di un universo visivo: lasciando in secondo piano la storia narrata, rielaborano la concezione del cinema intesa come Arte cinematografica, arte dell’immagine e del suono, lavorando su una complessa e psichedelica sinestesia di luci, inquadrature, montaggio e colonna sonora.

Se Amer seguiva una certa logica temporale, in Strange colour (scritto dagli stessi registi) siamo nell’astrazione più assoluta. Protagonista è Dan Kristensen (Klaus Tange), un uomo d’affari che di ritorno da un viaggio non trova in casa la moglie Edwige: la donna è scomparsa, nessuno sembra saperne niente, e una misteriosa inquilina del palazzo racconta che anche suo marito scomparve tempo prima. Mentre il detective Vincentelli indaga, l’uomo precipita in una spirale di incubi concentrici e senza fine: la moglie viene trovata decapitata, ma le indagini non portano a nulla. Dan ormai non riesce più a distinguere la realtà dalle allucinazioni, e scopre che la morte della moglie è legata forse a una sua vita segreta. Chi veramente l’ha uccisa? Perché? Oppure è tutto un lungo incubo?

Queste domande vengono lasciate volutamente senza risposta e aperte all’interpretazione dello spettatore, con suggestioni degne dei migliori deliri di David Lynch. Ma ai registi, del resto, non interessa tanto costruire una vera storia gialla con l’assassino da trovare: è un mistero senza soluzione, è come trovarci in un racconto di Kafka o nell’Aspettando Godot di Beckett, immersi in un’atmosfera lisergica, onirica, psichedelica e surreale, sempre in attesa di una rivelazione destinata a non arrivare. Cattet/Forzani sembrano voler “frustrare” gli amanti del thriller, con l’accumulo di misteri e indizi irrisolti: la signora nascosta nell’ombra (che insieme agli altri condòmini forma un gruppo di personaggi grotteschi degni di Polanski), l’individuo che si muove attraverso i muri comunicanti, la vita segreta di Edwige, le perversioni della famigerata Laura, il trauma infantile del protagonista.

Strange colour è un appassionato atto d’amore nei confronti del glorioso thriller italiano. Già il titolo, alla luce della visione, risulta essere un omaggio al cult Lo strano vizio della signora Wardh di Sergio Martino (con l’icona del genere Edwige Fenech, e non a caso la donna scomparsa ha lo stesso nome). Almeno due scene richiamano infatti tale film in maniera esplicita: le schegge di vetro che “esplodono” al rallentatore per poi fungere da feticcio sadomaso riprendono direttamente l’inquadratura di Ivan Rassimov che rompe la bottiglia per spargerne i cocci sul corpo della Fenech; il mazzo di fiori recapitato a Dan riporta come messaggio “Il tuo lato oscuro è la cosa più bella che possiedi e sarà per sempre mio”, quasi le stesse parole che accompagnano l’omaggio floreale a Edwige Fenech. Evidenti richiami al cinema di Dario Argento e Mario Bava sono le luci coloratissime che dominano varie sequenze – immagini rosse, verdi e blu (anche contrastanti in un’unica inquadratura) dal gusto acceso e ipnotico, che valorizzano lo stile liberty ed elegante (a metà fra l’antico e il moderno) delle location: il linguaggio dei maestri non viene semplicemente ripreso, ma amplificato in maniera parossistica fino a diventare struttura fondamentale del film quale composizione artistica – in un certo senso, è quanto fa anche Nicholas Winding Refn con quel capolavoro che è The Neon Demon (2016). Come in ogni neo-giallo, sono immancabili i guanti e l’impermeabile nero dell’assassino, qui ripresi attraverso un singolare meccanismo, e come armi il coltello e il rasoio. Squisitamente argentiano è il flashback sul trauma infantile che si compone man mano, immerso in un’abbagliante luce bianca, ma anch’esso destinato a rimanere irrisolto. Un occhio attento può cogliere altri probabili riferimenti al thriller italiano, come la lama nella vagina (fuori campo) da Cosa avete fatto a Solange? e l’uomo che compare dietro il protagonista come in Tenebre di Argento. Il palazzo che nasconde al suo interno un altro edificio dal sapore misterioso e alchemico rimanda a L’inquilino del terzo piano di Polanski, ma soprattutto a Inferno di Dario Argento. Strange colour, intriso di erotismo, feticismo e perversione morbosa, presenta anche un buon tasso di violenza, concedendo pure vari momenti sanguinari: vedasi la gola recisa con tanto di dettagli, le lacerazioni della carne (a volte sublimate dalle luci psichedeliche, altre volte “al naturale”) e la lama che fuoriesce dalla bocca.

Ma tutto questo è messo in scena con un linguaggio assolutamente nuovo, e anche qui sta il genio dei due registi: prendere elementi estetici e narrativi del passato per creare qualcos’altro che lo omaggia ma al contempo va oltre, creando un’orgia visiva di incredibile potenza. Strange colour va visto senza la pretesa di spiegare tutto quanto accade, ma lasciandosi trasportare dal flusso di immagini. Stilisticamente, si trovano davvero virtuosismi di ogni tipo. Non solo le luci fluorescenti di cui si parlava, ma anche inquadrature stroboscopiche, uso massiccio dello split-screen, rotazioni e movimenti di macchina vertiginosi, inquadrature che confondono il verticale con l’orizzontale, dettagli argentiani di occhi reiterati in maniera ossessiva, distorsioni, immagini brevissime montate in modo frenetico. Un carattere distintivo del film è proprio il montaggio, talmente sincopato da richiedere la massima attenzione, con le inquadrature che si susseguono creando un effetto quasi allucinogeno. Il film, in certi momenti, è anche un’opera di video-arte, come dimostra l’utilizzo dei corpi femminili e le sequenze con l’assassino guantato, riprese in B/N e con il meccanismo dello stop-frames. Tutto questo universo visivo è impossibile da raccontare appieno, è qualcosa che va visto.

Un ruolo fondamentale è giocato anche dalla colonna sonora, che diventa parte integrante del film: quasi tutti i brani sono recuperati da vari thriller italiani d’epoca, come ulteriore omaggio al genere, e risultano più che mai azzeccati nella creazione di questa atmosfera lisergica, onirica e psichedelica. Due pezzi sono ripresi da Tutti i colori del buio, fra cui l’indimenticabile Sabba di Bruno Nicolai, altri da Così dolce…così perversa, Gatti rossi in un labirinto di vetro, La corta notte delle bambole di vetro, altri ancora provengono da OST di film di altro genere: spiccano due brani provenienti dal poliziesco Il grande racket.

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