L’ultima memorabile interpretazione di Philip Seymour Hoffmann: “La spia”

Intorno al film

Il pluripremiato attore Philip Seymour Hoffmann, scomparso lo scorso 2 febbraio, è interprete di una magnifica interpretazione postuma ne La spia (A most wanted man, 2014) dell’olandese Anton Corbijn: fotografo e regista di videoclip musicali, approda poi nel lungometraggio (ricordiamo The American con George Clooney). Il suo nuovo lavoro è una spy-story vecchio stile, un film complesso e dall’ingranaggio perfetto tratto dal romanzo Yssa il buono dello specialista John Le Carré – celeberrimo scrittore britannico di best-seller spionistici: dalle sue opere sono stati tratti numerosi film, dal classico La spia che venne dal freddo a La casa Russia, fino ai più recenti Il sarto di Panama e La talpa. La pellicola di Corbijn – frutto di una co-produzione fra Regno Unito, USA e Germania – è il più recente adattamento cinematografico da Le Carré, qui sceneggiato da Andrew Bovell.

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La vicenda

Ad Amburgo, ai giorni nostri, opera un’intelligence tedesca con lo scopo di monitorare gli arabi sospettati di terrorismo: a capo del gruppo c’è il disincantato Günther Bachmann (Philip Seymour Hoffmann), spesso in conflitto con i colleghi americani. L’attenzione dei servizi segreti si concentra su Issa Karpov (Grigoriy Dobrygin), un clandestino russo/ceceno e di religione islamica: rifugiatosi presso una famiglia, il ragazzo vuole entrare in contatto con il losco banchiere Tommy Brue (Willem Dafoe), presso il quale è depositata la gigantesca eredità paterna. Riuscito nel suo intento grazie a un’avvocatessa, Karpov viene strumentalizzato a sua insaputa da Bachmann per arrivare al suo vero obiettivo: il dottor Faisal Abdullah, che sotto la copertura di un’organizzazione pacifista nascoste un grosso traffico d’armi.

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Narrazione e stile

La spia si colloca in una dimensione del tutto particolare all’interno del contemporaneo cinema di spionaggio, distinguendosi dalla massa: mentre James Bond conosce con Daniel Craig una nuova giovinezza e una dimensione più introspettiva ma rimane innanzitutto un prodotto di spettacolo, i vari Mission: Impossible o The Bourne Identity stanno assumendo una connotazione sempre più fracassona, trasformando il genere spionistico puro in film d’azione quasi fantascientifici. A most wanted man è qualcosa di completamente diverso, un tipo di spy-story che anni fa andava per la maggiore, mentre oggi viene messo in secondo piano: fanno eccezione opere come il nostro film o La talpa (Tomas Alfredson, 2011) – non a caso, ancora tratto da Le Carré). Ne La spia scompare ogni dimensione eroica e spettacolare: nessuna scena d’azione, neanche uno sparo né un omicidio, e gli agenti segreti vengono riportati alla loro dimensione umana.

Philip Seymour Hoffmann interpreta con la consueta maestria ed eleganza una spia cinica e disillusa, lontanissima dallo 007 che popola l’immaginario comune, ma più realistica: anche fisicamente è anticonvenzionale, corpulento e “grigio”, cravatta slacciata e vita notturna quasi da detective hard-boiled. Non ha molto sex-appeal, e con le due colleghe – una americana e l’altra tedesca – il rapporto non va oltre quello professionale e amichevole. Il mondo delle spie è descritto in tutto il suo amaro cinismo e nella sua spietatezza, in cui i rapporti umani sono strumentalizzati per giungere all’obiettivo e non c’è una distinzione manichea fra “buoni” e “cattivi”. Lo stesso Bachmann obbedisce alla massima per cui “il fine giustifica i mezzi” e non esita a rapire la bella avvocatessa per costringerla a ingannare Issa, a sua volta pedina di un gioco più grande, oppure a ricattare il banchiere per i soldi sporchi del padre. Altrettanto machiavellici (se non peggio) sono gli agenti segreti americani, con i quali si crea un continuo conflitto di metodi e giurisdizione, stemperato solo dalla presenza di Martha Sullivan (Robin Wright) e dalla sua collaborazione con Bachmann. Notevole la costruzione di tutti i personaggi, sviscerati psicologicamente e mai banali, i quali vanno a far parte di un complesso mosaico che si delinea man mano nel corso della lunga vicenda (120 minuti circa). Particolarmente interessanti sono la figura di Issa, della sua avvocatessa Annabel Richter (Rachel McAdams) e del banchiere, magnificamente interpretato da Willem Defoe. Ciascuno è visto da prospettive differenti, e la sceneggiatura ha il pregio di tenere sempre in sospeso il vero scopo di ogni pedina: il misterioso immigrato, la donna portavoce dei diritti dei rifugiati, Tommy Brue, legato a Issa da un antico patto stipulato dai loro padri, e il dottor Abdullah, ambigua figura che si muove nell’ombra.

La spia è un film squisitamente attuale, che abbandona i vecchi scenari della guerra fredda per esplorare il moderno fenomeno del terrorismo arabo, la paura del nemico che può nascondersi fra di noi, ma anche il suddetto rapporto fra i vari servizi segreti, che si mantiene sulla lama di rasoio per tutto il film fino a convogliare nell’amarissima conclusione. Pur non essendoci azione, A most wanted man è ritmato e appassionante, grazie anche alla solida regia e sceneggiatura: lo spionaggio torna alla sua natura più genuina, fatta di pedinamenti, intercettazioni, codici segreti e trappole. Dialoghi secchi e pregnanti, lontani da ogni retorica, permeano tutta la lunga storia, l’elemento spionistico si coniuga con quello “giallo” (assolutamente geniali i piani progettati da Hoffmann) e col dramma umano, e il tutto è reso più forte dalle carismatiche interpretazioni. In sintesi, attenzione certosina alla sceneggiatura e ai personaggi, anti-eroismo e assenza di spettacolarità sono dunque i caratteri basilari dell’opera di Corbijn: per questo motivo si parlava di spy-story “vecchio stile”, vicina a classici come La spia che venne dal freddo e La casa Russia, e con un’impeccabile Hoffmann che prende il posto dei rispettivi Richard Burton e Sean Connery.

Notevole anche la ricerca stilistica ed estetica, particolarmente ricercata e crepuscolare. Supportata da scenografie azzeccate, fra palazzi opprimenti e architetture moderne, e da un montaggio curato, la fotografia (Benot Delhomme) è uno dei punti forti dell’opera: in grado di alternare i colori al neon della città notturna con i grigi scenari diurni e i freddi interni, si rivela il giusto accompagnamento di una spy-story senza eroi.

La colonna sonora

In conformità al tono cupo e “misurato” che permea tutta la vicenda, la colonna sonora è realizzata in modo particolare. Nessun brano roboante da action-movie, nessun tema portante che rimane impresso: Herbert Grőnemeyer compone un sottofondo musicale minimalista, quasi un sound-design d’atmosfera, che per la maggior parte del tempo lascia però spazio ai silenzi, ai dialoghi e ai rumori intradiegetici. Anche da questo si percepisce come il realismo sia l’effetto perseguito (con successo) da Anton Corbijn.

Davide Comotti

Contatto: davidecomotti85@gmail.com

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