No! Il caso è felicemente risolto (1973) di Vittorio Salerno

Intorno al film

Vittorio Salerno, fratello dell’attore e regista Enrico Maria, è una personalità di rilievo negli anni d’oro del cinema italiano: scrittore e regista, ha diretto uno dei primi thriller del nostro Paese (Libido, 1965, insieme a Ernesto Gastaldi), due polizieschi d’impegno civile (No! Il caso è felicemente risolto, 1973, e Fango bollente, 1975) e un thriller paranormale (Notturno con grida, 1982, ancora con Gastaldi), oltre ad aver scritto numerose sceneggiature. No! Il caso è felicemente risolto, scritto dallo stesso Vittorio Salerno insieme ad Augusto Finocchi, è un film intenso e spiazzante che si colloca a metà fra il noir/poliziesco e il dramma giudiziario, un potente pamphlet di denuncia contro la malagiustizia italiana.

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La vicenda

A Roma, sulle rive di un lago, il professor Edoardo Ranieri (Riccardo Cucciolla) uccide brutalmente una prostituta: al delitto assiste Fabio Santamaria (Enzo Cerusico), un impiegato delle ferrovie, ma egli, per timore o forse per quieto vivere, decide di non denunciare l’assassino. Ma è proprio quest’ultimo, avendo visto a sua volta il testimone, a denunciare il fatto per tutelarsi fornendo alla polizia l’identikit del Santamaria. Egli passa quindi dalla condizione di testimone a quella di accusato, e quando decide di rivelare la verità inizia per lui una tragica aggressione giudiziaria e mediatica. Solo il coraggioso giornalista Giuseppe Ferdinando Giannoli (Enrico Maria Salerno) intuisce l’errore giudiziario e indaga per far venire a galla la verità.

Narrazione e stile

No! Il caso è felicemente risolto appartiene al grande cinema italiano di denuncia civile, un filone che ha visto come protagonisti maestri del calibro di Damiani, Rosi, Petri, Zampa, Monicelli, Squitieri e altri ancora: un olimpo di nomi in cui Salerno si inserisce da outsider realizzando con uno stile personale due opere magistrali. Prima della crudele follia criminale di Fango bollente, incentrato su un “branco” di tre uomini apparentemente normali che le nevrosi della vita moderna trasformano in assassini, Salerno realizza il suo primo film d’impegno socio-politico raccontando le storture giudiziarie del Belpaese. Numerosi sono i temi trattati, aderenti al panorama italiano di allora e anche di oggi: la sfiducia del cittadino nella legge, le storture del sistema giudiziario, le nevrosi dell’individuo, e anche una riflessione sui rapporti fra le autorità e la stampa. In quegli anni nascono vari film sul tema, drammi carcerari come L’istruttoria è chiusa: dimentichi di Damiano Damiani o Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy, oppure odissee giudiziarie quali Siamo tutti in libertà provvisoria di Manlio Scarpelli e il nostro film, sicuramente uno dei migliori del filone.

L’inizio del film è un autentico pugno nello stomaco per lo spettatore, e fa già capire che tipo di storia e di stile ci attende: dopo i titoli di testa (sui quali sentiamo la bellissima e malinconica colonna sonora di Riz Ortolani), assistiamo al crudele e realistico omicidio della prostituta, che viene uccisa a bastonate da Cucciolla sotto lo sguardo paralizzato del testimone. Inizia così una “sfida” a distanza fra il professore e l’impiegato, che fugge in città ossessionato dall’idea di essere seguito dall’assassino: tutto il film si reggerà – come un tesissimo noir – sui confronti (a distanza e poi faccia a faccia) fra i due protagonisti, alternati alle indagini condotte dai giornalisti e a squarci introspettivi sulle vite disperate di Santamaria e Ranieri. Già dalle sequenze iniziali (l’omicidio della donna e la fuga di Cerusico), Salerno dimostra di voler costruire un film che, pur non essendo un vero poliziesco, possiede un bel ritmo e una forte tensione narrativa: la tensione è sostenuta anche dalle ricorrenti inquadrature dove vediamo in primo piano il lampeggiante dell’auto della polizia muoversi per le strade, sullo sfondo di un rumore che assomiglia a un battito cardiaco (l’inquietudine diventa una metafora del timore che la legge incute nel cittadino). Questa sensazione di amarezza, suspense e angoscia è destinata a durare per tutto il film, raggiungendo il culmine quando il Santamaria segue in auto l’assassino, poi quando decide di rivelare tutta la verità e non capisce di essersi messo in un grosso guaio, ma in generale in ogni momento della sua vita.

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Uno dei paradossi che il film vuole rappresentare è proprio la condizione del testimone, costretto ad essere sempre un “uomo in fuga”, mentre l’assassino si è messo al di sopra di ogni sospetto e porterà il Santamaria alla condanna – possiamo notare una similitudine con un altro monumento del genere, Il testimone (1978) di Jean-Pierre Mocky con Alberto Sordi e Philippe Noiret. Lo sguardo di Vittorio Salerno è realistico e impietoso verso il malfunzionamento del sistema giudiziario italiano, ma il regista non vuole salvare nessuno: anche il testimone, rifiutandosi di denunciare alla legge un omicidio, si è reso in un certo senso complice con la sua passività, dimostrando una sfiducia nelle istituzioni che finirà con il rivoltarsi contro di lui. La società italiana rappresentata nel film è dunque piena di paradossi, e questo è un altro elemento di forte attualità che lo rende un capolavoro. No! Il caso è felicemente risolto è permeato da un continuo senso di angoscia, amarezza e solitudine, dal punto di vista sia sociologico che psicologico. I due protagonisti ci offrono performance magistrali: Enzo Cerusico, noto soprattutto per il telefilm americano Tony e il professore, fu attivo in Italia in numerosi film di vario genere, mentre Riccardo Cucciolla, grande attore e doppiatore, dedicò la sua carriera cinematografica recitando soprattutto in film d’impegno civile e politico; fanno da supporto Enrico Maria Salerno nei panni dell’arguto giornalista e l’intensa Martine Brochard, moglie di Santamaria, oltre a vari caratteristi del nostro cinema.

Il personaggio interpretato da Cerusico è un “uomo qualunque”, un impiegato che conduce una vita mediocre e il cui rapporto coniugale è in crisi, un uomo solo, che non riesce a raccontare a nessuno (nemmeno alla consorte) il dramma che sta vivendo. E, alla fine dei conti, anche l’assassino non è un delinquente di professione, ma un pover’uomo: un professore che vive sempre in solitudine, è solito probabilmente frequentare prostitute e (come racconta nel bellissimo dialogo con Cerusico) è stato assalito da un raptus omicida. Naturalmente, la regia non vuole giustificare nessuno: né l’omicida, ma neanche il cittadino che non denuncia alla legge un fatto così grave (più volte è sul punto di farlo, ma desiste sempre). La natura del delitto compiuto da Ranieri anticipa un po’ la follia omicida di Fango bollente: crimini ancora più inquietanti perché maturati in uomini “normali”, che non pensavano di diventare assassini, e generati dalle nevrosi della società e dell’individuo contemporanei (un altro tema di forte attualità). Il suddetto dialogo fra Enzo Cerusico e Riccardo Cucciolla è uno dei momenti più intensi di tutto il film: nel faccia a faccia fra i due protagonisti, essi vengono rappresentati nella loro disperazione e solitudine, risultando più simili fra loro di quanto si possa pensare. I due sono condannati da una sorta di “accordo” a portare un forte peso sulla coscienza, un peso di cui il Santamaria decide di liberarsi quando ormai è tardi, vedendosi spalancare le porte del carcere.

Importantissimo nel film è anche il personaggio di Giuseppe Ferdinando Giannoli, caporedattore di un quotidiano interpretato magistralmente dal grande Enrico Maria Salerno, uno dei più grandi attori e doppiatori del cinema italiano (e non solo). Il giornalista (sempre elegante e dall’aria furba e sorniona) mette in luce i rapporti non sempre amichevoli fra la stampa e le autorità, e sembra quasi fare le veci dell’inefficiente polizia: come un investigatore privato (che riesce a scoprire l’identità di Ranieri nonostante questo voglia rimanere anonimo), si mette sulla pista giusta e, nell’ultima sequenza del film, quando il Santamaria è stato condannato, lascia intendere al professore che proseguirà le sue indagini personali. Questo, nel finale autentico voluto dal regista. Come spiega Vittorio Salerno, al distributore della pellicola non piaceva però una conclusione così amara, e voleva un “happy ending” che accontentasse gli spettatori: fece quindi girare a Vittorio Salerno una breve scena conclusiva, in cui vediamo Cerusico in carcere sentire alla radio la notizia che il professor Ranieri si è suicidato lasciando scritto di essere lui l’assassino. Un finale posticcio, che non risponde alle intenzioni del regista, ma che è diventato la conclusione “ufficiale” del film (anche nei passaggi televisivi e nel DVD pubblicato dalla Videa): il film funziona comunque a meraviglia, anche se il lieto fine contrasta con la disperazione che il regista ha trasmesso in tutti i 90 minuti circa.

La colonna sonora

Perfettamente funzionale alla vicenda narrata è la triste e malinconica colonna sonora di Riz Ortolani, che sentiamo a volte in versione strumentale (per esempio sui titoli di testa), altre volte accompagnata dalla canzone Mamma Giustizia: trattasi di un brano musicale cantato dai “Nomadi”, il cui testo ironizza e contrasta volutamente con una giustizia in cui non crede nessuno dei personaggi rappresentati.

Davide Comotti

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