Polizieschi: Perché si uccide un magistrato (1975) di Damiano Damiani

Intorno al film

Non è azzardato dire che il cinema di Damiano Damiani è stato (e rimane) uno dei più forti e attuali del panorama italiano: pochi come lui hanno saputo parlare coraggiosamente di temi scottanti (mafia, politica, terrorismo, carcere) in maniera così cruda e approfondita senza però utilizzare intellettualismi di maniera, bensì una narrazione appassionante che arriva dritta al cuore dello spettatore. Dopo aver analizzato il sistema mafioso e le sue implicazioni politiche con il seminale Il giorno della civetta, nei ruggenti anni Settanta sforna i suoi capolavori – a cominciare da Confessione di un commissario (forse il suo miglior film su questo tema). Nel 1975, dirige una pellicola meno conosciuta e ingiustamente sottovalutata, quel Perché si uccide un magistrato che ancora oggi suona come un titolo duro e perentorio: Damiani orchestra una vicenda abbastanza inconsueta, mettendo a nudo senza remore le connessioni fra mafia e politica e scegliendo soluzioni narrative differenti anche dai suoi consueti canoni.

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La vicenda

Il regista impegnato Giacomo Solaris (Franco Nero) ha appena diretto un film decisamente scomodo, che parla di un magistrato corrotto e colluso con la mafia: dopo averlo presentato a Palermo, scoppia una bagarre perché la pellicola è evidentemente ispirata alla figura reale del procuratore Alberto Traini (Marco Guglielmi). Qualche giorno dopo, Traini viene trovato ucciso con un colpo di pistola: mentre vari uomini politici e mafiosi iniziano una lotta interna accusandosi a vicenda del delitto, Solaris inizia a indagare insieme alla vedova Antonia (Françoise Fabian) per scoprire la verità. Una verità che sarà più inaspettata del previsto, costringendo Giacomo a una difficile scelta.

Narrazione e stile

In Perché si uccide un magistrato, Damiani sembra quasi “entrare” lui stesso nel film: perché il protagonista Giacomo Solaris può essere visto come un suo ideale (e parziale) alter-ego, regista di film scomodi e socialmente impegnati. Naturalmente, Damiani non vuole fare del puro meta-cinema fine a se stesso, ma sfruttare il meccanismo meta-cinematografico come innovativo incipit di narrazione: alcuni minuti sono dedicati proprio a scene tratte dall’immaginario film “Inchiesta sul Palazzo di Giustizia”, con tanto di uccisione finale del giudice (Claudio Gora) che fa gridare allo scandalo il servile magistrato De Fornari (Pierluigi Aprà) mentre lo visiona insieme a Traini. Già nei primi momenti è concentrata una serie di tematiche esplosive che dimostrano come Damiani fosse incredibilmente avanti sui tempi: non solo la denuncia della corruzione, ma anche la sfiducia nelle istituzioni che trapela dal successo del film e la lotta fra libertà di espressione (cinema, stampa) e censura. Ci sono dunque molti buoni motivi (e altri ne vedremo) per considerare Perché si uccide un magistrato come un altro e imprescindibile tassello dell’universo di Damiani, in cui cinema e denuncia sociale si mescolano indissolubilmente.

Perché si uccide un magistrato sfugge a una precisa catalogazione: è un robusto film di denuncia, un dramma socio-psicologico, un poliziesco se vogliamo, e in parte anche un giallo. Rispetto ad altri film di Damiani, l’azione scarseggia (ricordiamo solo l’attentato a Renzo Palmer, crivellato di colpi in strada), ma il ritmo è sempre elevato. E proprio qui sta uno dei motivi della grandezza di Damiani: riuscire a coinvolgere lo spettatore con storie appassionanti e ben costruite per comunicare dei messaggi forti e ben precisi. In questo caso, l’elemento poliziesco passa un po’ in secondo piano (il commissario è, volutamente, uno dei più inefficaci del “genere”), mentre Damiani (che co-sceneggia il film) costruisce una vicenda complessa con un omicidio da scoprire, uomini politici in lotta fra loro e un mafioso che fa da ago della bilancia.

Il protagonista è interpretato da un Franco Nero all’apice della forma, che dopo aver vestito i panni di irreprensibile carabiniere (Il giorno della civetta) e giudice (Confessione di un commissario) passa con disinvoltura nel ruolo di questo regista intellettuale e impegnato che proprio nella denuncia di un alto magistrato trova il “colpo” sensazionale. La sua “missione” è la ricerca della verità, in nome della quale stringe amicizia con le personalità più disparate: un quotidiano di sinistra, il commissario di polizia, un piccolo mafioso (il sempre grandioso Renzo Palmer) e l’affascinante moglie (poi vedova) di Traini – con la quale intrattiene un rapporto ambiguo di ostilità e affetto che occupa buona parte del film fino all’inaspettata conclusione. Il personaggio di Françoise Fabian, attrice francese di gran classe, non è un semplice contorno, e altrettanto intensa è la sua interpretazione: la donna assurge ad autentico co-protagonista, come spesso accade nel cinema di Damiani (Il giorno della civetta, La moglie più bella), e gioca un ruolo fondamentale nello svolgimento delle indagini. Ricchissimo è il cast a latere che unisce vari attori e caratteristi del cinema italiano, ciascuno dei quali delinea una ben precisa figura senza mai scadere nel grottesco: oltre al suddetto Palmer e agli altri nominati, ecco Tano Cimarosa nei panni di un guardamacchine usato come capro espiatorio, Elio Zamuto, Giancarlo Badessi, Claudio Nicastro e Luciano Catenacci perfetti come mafiosi, Giorgio Cerioni è l’ambiguo medico della famiglia Traini, Ennio Balbo il giudice istruttore, Mico Cundari il direttore del giornale, Eva Czemerys la giornalista amante di Solaris, e lo stesso Damiani compare come avvocato amico del protagonista.

La messa in scena di Damiani è sempre coinvolgente e “popolare”, nel senso più positivo del termine, cioè una narrazione di grande impatto emotivo. Pensiamo non solo ai dialoghi perfetti e pregnanti (che sono sempre uno dei tratti distintivi del suo cinema), ma anche ad alcune scene che si susseguono tenendo alta l’attenzione dello spettatore: la bomba nella sede del giornale (ripresa a fatto già avvenuto), l’uccisione del boss mafioso Bellolampo con l’espediente della “musica a contrasto” (alla radio sentiamo il malinconico brano L’indifferenza di Iva Zanicchi), la suddetta esecuzione di Palmer in strada – orchestrata come nei migliori polizieschi a testimonianza della grande maestria di Damiani anche nelle scene d’azione. Notevole è, come sempre, la sceneggiatura, che evolve in maniera fluente dal “film nel film” all’omicidio reale, dalle lotte di potere fino al colpo di scena finale: spesso criticato per la conclusione (che può in effetti lasciare l’amaro in bocca), Perché si uccide un magistrato trova invece proprio in essa uno dei suoi punti di forza, almeno secondo chi scrive. In questa sede non si vuol svelare troppo, ma è necessario dire che l’omicidio del giudice risulterà essere un delitto privato dovuto a motivazioni personali, senza nessuna implicazione con la mafia: e il personaggio di Franco Nero, pur di far trionfare la verità, scopre e consegna alla polizia il vero colpevole, smontando così le accuse verso i mafiosi coinvolti nella vicenda. Nonostante il parere contrario degli altri giornalisti, Solaris rinuncia così al “colpo grosso”: perché altrimenti, dice pressappoco, “non sarebbe diverso da Traini”. Un finale amarissimo, dove la verità viene a galla, ma la giustizia rimane impotente di fronte al sistema mafioso.

La colonna sonora

Un ulteriore aspetto sempre curatissimo da Damiani nei suoi film è la colonna sonora, qui affidata al grande Riz Ortolani come in altre opere del maestro: già compositore delle musiche per Confessione di un commissario e futuro autore dell’indimenticabile tema di Io ho paura, scrive una melodia decisamente particolare, in grado di fondere ritmo vivace e andamento malinconico. Trattasi di una peculiarità del celebre musicista, che in pochi riescono a creare, dando vita a un tema musicale avvolgente e introspettivo che non manca però mai di ritmo – un corrispettivo del film, insomma. Da notare, inoltre, il suddetto e struggente brano L’indifferenza cantato da Iva Zanicchi durante l’uccisione del boss.

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