Spy story: Joss il professionista (1981) di George Lautner.

Intorno al film

Il noir francese – meglio conosciuto in Italia come “polar” (fusione dei termini “poliziesco” e “noir”) – non è un genere uniforme, dal momento che presenta al suo interno una grande varietà di generi e stili: dalle vette sublimi di Melville all’intimismo di José Giovanni (il noir nelle sue accezioni più autoriali ed esistenziali), passando per altri nomi importanti come Deray, Verneuil, Lautner, Boisset, i quali di volta in volta hanno messo in scena vicende più d’atmosfera o d’azione contaminandolo anche con altri generi. È il caso di un capolavoro troppo poco ricordato dalla critica, quel Joss il professionista (Le professionnel, 1981) di George Lautner che risulta essere un perfetto connubio fra noir, poliziesco e spy-story, con un carismatico Jean-Paul Belmondo: fra i più grandi interpreti del genere (Borsalino, Il clan dei marsigliesi) e del cinema francese in generale, dà vita qui a un singolare e solitario agente segreto.

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La vicenda

Joss Beaumont (Jean-Paul Belmondo) è un agente operativo dei servizi segreti francesi, inviato in Africa per uccidere il presidente di un piccolo Stato. Un mutamento delle condizioni politiche spinge però il governo a cambiare strategia: il bersaglio deve rimanere vivo, così Joss viene tradito e consegnato nelle mani del nemico. Dopo una lunga prigionia ai lavori forzati, riesce ad evadere e ritornare in Francia: con un telegramma in codice avverte i suoi ex colleghi che il contratto sarà portato a termine, iniziando così una lunga sfida col servizio segreto. In quei giorni, il presidente N’jala è infatti ospite della Francia, e l’agente – sia per il suo codice d’onore che per vendetta verso chi l’ha tradito – vuole compiere l’attentato previsto due anni prima. Incaricato dai piani alti, sulle sue tracce si muove lo spietato commissario Rosen (Robert Hossein).

Narrazione e stile

George Lautner (La fredda alba del commissario Joss) è un ottimo e prolifico artigiano del polar, e può vantare la collaborazione con alcuni fra i suoi interpreti più illustri, quali Jean Gabin, Alain Delon e Jean-Paul Belmondo. Joss il professionista è sicuramente uno fra i vertici di Lautner e Belmondo – e più in generale del noir francese – così originale, rigoroso e appassionante. Tratto dal romanzo Mort d’une bête à la peau fragile di Patrick Alexander (1978), è sceneggiato dal regista insieme a Jacques Audiard, il figlio del celebre Michel – specialista di questo genere e autore degli impeccabili dialoghi. Il fatto che sia un film decisamente sui generis lo dimostra già la prima parte (18 minuti circa), ambientata in Africa nell’immaginario Stato del Malagawi – ricostruito con efficacia nella Camargue francese e probabile rappresentazione delle ex-colonie.

La regia ci proietta nella vicenda in media res, cioè direttamente durante lo svolgersi dei fatti, senza spiegare subito chi è Belmondo e perché si trova sotto processo, drogato e costretto a confessare. Solo man mano, soprattutto dopo il suo ritorno in Francia, comprenderemo che è un agente segreto tradito dai suoi mandanti: prima c’è spazio per il prologo africano, che è la parte più violenta del film, tra prigionieri presi a bastonate, risse con i secondini e un massacro nel villaggio, dove Joss combatte imbracciando un mitra. Un’inquadratura della Tour Eiffel ci sposta in Francia, dove si svolgerà tutto il resto del film, sempre in bilico fra il poliziesco e lo spionaggio. Da una parte ci sono infatti le situazioni tipiche del noir (il killer professionista col suo codice deontologico, il poliziotto che gli dà la caccia, tradimento e vendetta), ma dall’altra Le professionnel si avvicina decisamente a quei film incentrati sulla denuncia degli sporchi intrighi dei servizi segreti: pensiamo ai Tre giorni del Condor di Pollack o Killer Elite di Peckinpah, ma anche a Goodbye & Amen di Damiani, al centro dei quali finiscono i maneggi della CIA. In modo simile, il nostro film mostra senza remore il cinismo e la spietatezza dei servizi francesi, pronti a tutto in nome del presunto interesse nazionale (“La ragione di Stato non si paga”, afferma il colonnello Martin al ministro – Jean Desailly): pur rimanendo sul vago, la storia parla di interessi politici, interventismo e sfruttamento del Terzo Mondo, cambiamenti di strategia e voltafaccia – e in questo senso viene in mente anche un classico del cinema d’azione come l’americano I quattro dell’Oca Selvaggia, dove i mercenari sono traditi dal mandante e lo uccidono per vendetta. Le professionnel non è strettamente un film di denuncia politica, ma – volenti o nolenti – risulta molto pregnante anche sotto questo punto di vista. La motivazione spionistica e personale si intrecciano continuamente: il personaggio di Belmondo è forse altrettanto cinico di chi l’ha tradito, ma – come i “migliori” criminali del cinema francese – ha un proprio codice d’onore e lo vuole rispettare fino in fondo. È un assassino di professione, è stato ingaggiato per un lavoro e lo vuole portare a termine: non ha niente di personale contro N’jala, ma deve eliminarlo – perché dice, in sostanza, “Se era giusto ucciderlo prima, è giusto ucciderlo anche adesso”. Una morale senza dubbio discutibile per i canoni del vivere civile, ma più rigorosa rispetto a quella imposta dalla ragione di Stato: il governo tradisce, lui no. Ma lo scopo più intimo di Josselin Beaumont è la vendetta verso chi lo ha venduto al nemico: una vendetta sottile ed elaboratissima, giocata soprattutto sul piano psicologico. Ecco perché manda il telegramma di sfida e va a trovare la moglie pur sapendo di essere sotto controllo: vuole sfinire i suoi avversari, mostrare la sua forza. Belmondo, con la consueta verve istrionica, mette quindi in moto una serie di stratagemmi per muoversi in segreto e pianificare l’attentato: il travestimento da clochard per entrare in casa, l’incontro in hotel con la prostituta del presidente, la convocazione della stampa per salvarsi da una trappola, fino alla lunga macchinazione che prelude a un finale tesissimo e da applaudire senza sosta; un castello blindato, un elicottero, Belmondo solo contro tutti e un piano geniale che gli consentirà di portare a termine l’attentato senza sporcarsi le mani. Il ritmo è sempre elevato, grazie a una sceneggiatura perfetta e serratissima, e anche l’azione non manca, tra il prologo africano, il twist conclusivo e soprattutto il forsennato inseguimento in auto tra Joss e Rosen lungo le strade di Parigi fino ai piedi della Tour Eiffel. Immenso il duello fra i due nemici, un autentica resa dei conti in salsa western, con tanto di giacche slacciate, mani sulle pistole e inquadrature sempre più strette sui volti, il tutto accompagnato dalle musiche di Morricone.

Il commissario Rosen, interpretato dal celebre Robert Hossein della saga Angelica, è il personaggio più importante dopo Joss: a differenza di altri poliziotti del noir francese (pensiamo a Jean Gabin nel Clan dei siciliani), Rosin non ha un briciolo di simpatia né un codice d’onore, è un bastardissimo commissario che non esita a far picchiare la moglie del protagonista pur di farsi rivelare dove si trova. Astutissimo e implacabile professionista, è la nemesi di Beaumont, il che fa acquistare maggiore intensità e partecipazione emotiva al duello. Gli altri personaggi sono funzionali alla storia e all’atmosfera crepuscolare e malinconica che si respira per tutto il film, sfociando nell’amarissima scena finale: spiccano soprattutto il capitano Valeras (Michel Beaune), suo ex collega e vecchio amico col quale intrattiene un rapporto ambiguo, il viscido colonnello Martin, l’amante Alice e la moglie Jeanne, tutti pezzi di un mosaico che non vede vincitori né vinti. La regia è solida, priva di fronzoli e raffinatezze di maniera, ma sempre efficace nella rappresentazione di una vicenda cupa che solo in qualche momento concede spazio all’umorismo, grazie al volto simpatico di Belmondo.

La colonna sonora

 Un ulteriore tocco di classe al film è conferito dalla meravigliosa colonna sonora. Composta da Ennio Morricone, è basata su un tema principale che sentiamo fin dai titoli di testa ed è reiterato innumerevoli volte durante la storia. Gli inconfondibili archi del maestro italiano vibrano con solennità dando vita a una melodia sempre malinconica e romantica, in sintonia con la vicenda e con il carattere solitario del protagonista, una musica che scorre a volte più lenta e a volte più veloce ma sempre con uno struggente sapore lirico. Il suddetto leit-motiv si intitola Chi mai: composto anni prima da Morricone senza il preciso scopo di usarlo nel cinema, fu voluto nel film proprio da Belmondo, che lo ascoltò casualmente in radio e ne rimase talmente affascinato da volerlo inserire nella colonna sonora.

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