Sukiyaki Western Django (2007), l'iperbolico omaggio di Takashi Miike al western italiano

Intorno al film

Il cinema western (soprattutto italiano) e il cinema orientale sono legati da alcune tematiche intrinseche, fra cui giustizia e vendetta, onore e tradimento: basti pensare che due pietre miliari del genere, cioè I magnifici sette e Per un pugno di dollari sono ispirati a due film di Akira Kurosawa. Capita poi, non di rado, di trovare un samurai in trasferta nel West (Sole rosso) oppure un pistolero in trasferta in Giappone (Lo straniero di Silenzio). Il visionario regista giapponese Takashi Miike, celebre per i noir e soprattutto per gli horror (Audition, Ichi the killer), realizza un poderoso e fantastico omaggio allo spaghetti-western con Sukiyaki Western Django (2007), presentato lo stesso anno in concorso alla 64a Mostra di Venezia. Passato all’epoca un po’ sotto silenzio in Italia, è stato recentemente distribuito anche da noi in dvd, forse sull’onda della “Django mania” inaugurata dal capolavoro di Tarantino Django Unchained, e può così godere della vasta attenzione che merita.

sukiyaki

La vicenda

Prologo: un pistolero chiamato Piringo (Quentin Tarantino) uccide in duello tre rivali giapponesi, dopo avergli raccontato la storia di una leggendaria battaglia. Alcuni anni dopo, uno straniero senza nome (Hideaki Ito) giunge nel villaggio di Nevada, lacerato dal conflitto fra due bande rivali, i Rossi e i Bianchi. Vista la sua abilità nell’uso della pistola, entrambe le gang gli chiedono di allearsi a loro. Lo straniero, dopo aver fatto amicizia con una vedova, il suo bambino e la leggendaria guerriera Bloody Benten, decide invece di usare l’astuzia per mettere gli uni contro gli altri facendoli distruggere a vicenda. Dopo il massacro, ritorna nel nulla da cui è arrivato.

Narrazione e stile

Con Sukiyaki Western Django, Miike realizza un’opera di incredibile potenza visiva, dando origine a un immaginario narrativo e stilistico senza confini. Il “sukiyaki” è un piatto tradizionale giapponese, per cui già nel titolo è insita la fusione fra il western e il cinema orientale, una rivisitazione dei canoni di entrambi i generi in un iperbolico “gioco” di citazioni: pistoleri e samurai si trovano a combattere in questa terra misteriosa, quasi fuori dal tempo e dallo spazio (nell’Ottocento, da qualche parte nel Giappone, in una cittadina chiamata Nevada proprio come lo stato americano). Il regista ha sempre nutrito una particolare venerazione per gli spaghetti-western, e con questo film realizza il suo folle, visionario e fumettistico omaggio al genere, rivisitando la storia di Django prima ancora di Tarantino, a sua volta amante del western italiano: proprio al suo stile “pulp” e citazionista si ispira Miike, che a sua volta sembra aver influenzato alcune scene di Django Unchained. Il cameo di Quentin in Sukiyaki non è quindi casuale, vista la poetica parzialmente simile dei due registi (pensiamo in particolare a Kill Bill, mirabile fusione di arti marziali e western contemporaneo): grandioso il prologo con il racconto di Piringo e la sparatoria, un prologo che ha la funzione di conferire a tutta la vicenda un’aura ancora più leggendaria e “magica” (bellissimi i fondali coloratissimi coi paesaggi volutamente finti e cartoonistici).

Inizia poi il film vero e proprio, con questo cavaliere solitario che arriva nella cittadina semideserta: è solo la prima di una serie infinita di rimandi e citazioni, non solo al western, ma anche ai film di samurai e arti marziali, oltre che ai “grindhouse” di Tarantino e Rodriguez (che a loro volta omaggiano i film degli anni Settanta). Lo “straniero senza nome” è una presenza costante del cinema western, inaugurato in Italia dai due modelli Per un pugno di dollari (1964) e Django (1966) e trapiantato poi anche negli Stati Uniti. La vicenda richiama il film di Leone (le due bande rivali e il pistolero che le fa scontrare), ma il clima crepuscolare e fangoso è squisitamente ripreso dall’opera di Corbucci. Le citazioni più esplicite derivano proprio da Django, con la mitragliatrice nascosta nella bara e gli uomini bardati di rosso, ma ce ne sono altre: l’arsenale nascosto nella sella come Lee Van Cleef in Per qualche dollaro in più, il poncho indossato da Piringo che ricorda quello di Clint Eastwood nella “trilogia del dollaro”, la donna contesa dai due clan, la derringer nascosta nella manica, il finale sotto la neve (impossibile non pensare al Grande Silenzio corbucciano), e altro ancora. Miike riprende poi lo stile pulp di Tarantino soprattutto nelle sparatorie, con i proiettili che sibilano come missili e gli abbondanti schizzi di sangue rosso acceso. Notevole anche il flashback sulla storia della guerriera Bloody Benten, narrata come se fosse un “film nel film” e costruita sul modello dei fake trailer di Rodriguez. Squisitamente citazionista è anche la messa in scena dei combattimenti con le spade, in omaggio a una sterminata produzione che tutti questi registi dimostrano di conoscere e amare profondamente.

Sukiyaki Western Django, pur contenendo i temi classici del western e del cinema orientale (vendetta, giustizia, onore), è tutto costruito su una voluta esagerazione: grande merito alle sfarzose e coloratissime scenografie, valorizzate da una fotografia che predilige i toni forti e accesi, virando poi “in acido” durante i flashback. I paesaggi e gli interni giapponesi, i costumi e le armi si (con)fondono con quelli del selvaggio West, per cui troviamo il protagonista vestito da pistolero lottare con samurai dagli abiti vistosi o con altri abbigliati come cowboy (tutti rigorosamente giapponesi), con un piacevole effetto di straniamento. Assistiamo a scene folli (la pallottola contro la freccia, il proiettile fermato dalla spada), a una violenza iperbolica ma divertente (in quanto visibilmente finta e fumettistica) e a personaggi sopra le righe (il capo dei Rossi che legge Shakespeare, il boss dei Bianchi col piercing nel mento, lo sceriffo che soffre di doppia personalità): c’è quindi anche una certa ironia, che però non scade mai nella comicità. Grandiose ed esplosive le scene d’azione, in cui vengono utilizzate contemporaneamente pistole, fucili, katane, balestre, dinamite e la celebre mitragliatrice (ricordiamo l’assalto al carro, i combattimenti con grandi scene corali, fino alla lunga sparatoria finale).

Memorabile anche la scena conclusiva, in cui il protagonista si allontana a cavallo sotto la neve, lasciando il piccolo Heihachi accanto alle tombe dei genitori, mentre compare la scritta in inglese “alcuni anni dopo, Heihachi si diresse in Italia e fu conosciuto come Django”: non solo un omaggio al mitico pistolero, ma forse anche un riferimento meta-cinematografico che sottolinea come il western italiano sia nato sotto l’influenza del cinema orientale.

La colonna sonora

Il pezzo più memorabile della colonna sonora è quello che accompagna l’ultima scena, cioè il tema di Django cantato in giapponese e arrangiato secondo armonie orientali: si tratta proprio del brano composto da Luis Bacalov per il film di Corbucci (che a sua volta sarà riutilizzato tale e quale da Tarantino sui titoli di testa di Django Unchained). Tutta la musica che sentiamo nel film è realizzata all’insegna della fusione tra melodie western e giapponesi, fra ritmi epici e altri più nostalgici, mescolati in un gradevole unicum.

Davide Comotti

Bergamasco, classe 1985, dimostra interesse per il cinema fin da piccolo. Nel 2004, si iscrive al corso di laurea in Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Bergamo (laurea che conseguirà nel 2008): durante gli studi universitari, ha modo di approfondire la sua passione tramite esami di storia, critica e tecniche del cinema e laboratori di critica e regia cinematografica.

Diventa cultore sia del cinema d’autore (Antonioni, Visconti, Damiani, Herzog), sia soprattutto del cinema di genere italiano (Fulci, Corbucci, Di Leo, Lenzi, Sollima, solo per citare i principali) e del cinema indipendente.

Appassionato e studioso di film horror, thriller, polizieschi e western (soprattutto italiani), si occupa inoltre dell’analisi di film rari e di problemi legati alla tradizione e alle differenti versioni di tali film.

Nel 2010, ha collaborato alla nona edizione del Festival Internazionale del Cinema d’Arte di Bergamo.

Esordisce nella scrittura su “La Rivista Eterea” (larivistaeterea.wordpress.com). Attualmente, scrive sulla rivista cartacea “Bergamo Up” e sulle riviste online lascatoladelleidee.it, ciaocinema.it, mondospettacolo.com, horror.itmalastranavhs.wordpress.com e nonsologore.it. Ha redatto inoltre alcuni articoli per il sito della rivista “Nocturno Cinema” (nocturno.it).
Ha scritto due libri: Un regista amico dei filmakers. Il cinema e le donne di Roger A. Fratter (edizioni Il Foglio Letterario) e, insieme a Vittorio Salerno, Professione regista e scrittore (edizioni BookSprint).

Contatto: davidecomotti85@gmail.com

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