Thriller: Necrofobia (2014) di Daniel de la Vega

Intorno al film

Il regista argentino Daniel de la Vega, autore di film horror noti anche all’estero (vedasi Jennifer’s shadow, 2004), torna alla ribalta con Necrofobia (2014) – un originale thriller che richiama il giallo italiano anni Settanta creando però qualcosa di nuovo. Si inserisce quindi nel filone del cosiddetto “neo-giallo”, prolifico proprio in Sudamerica (Sonno profondo, Maldito amor) oltre che in Italia (Tulpa, Come una crisalide) e in Europa (Amer, L’étrange couleur des larmes de ton corps, Masks): ogni autore riprende temi ed estetiche del thriller alla Dario Argento e simili, per rielaborarli secondo la propria poetica e creare quindi a film che omaggiano il genere ma al contempo vanno oltre. L’innovazione principale di Necrofobia è innanzitutto nella produzione: il film è girato e pensato per la proiezione in 3D, ma anche in due dimensioni rivela tutta la sua creatività estetica e complessità narrativa.

La vicenda

In una città dell’Argentina vive Dante Samot (Luis Machin), proprietario di un piccolo atelier di moda: timido e riservato, vive tra stoffe e manichini, facendo del suo lavoro una vera e propria ossessione. La sua mente subisce una forte scossa dopo la separazione dalla moglie e soprattutto in seguito alla morte del fratello Tomas, al quale era morbosamente legato: Dante inizia a soffrire di “necrofobia”, cioè la paura e l’impossibilità di stare accanto a un defunto. Un giorno riceva una telefonata anonima che lo mette in guardia sull’ex-moglie: recatosi sul luogo dell’appuntamento, vede un misterioso individuo con cappello e impermeabile nero che inizia a perseguitarlo uccidendo prima la donna e poi il prete confessore. Dante deve fare i conti con l’assassino e con le apparizioni del fratello defunto, che lo avvolgono in una spirale di incubi.

necrofobia

Narrazione e stile

Per approcciarsi a Necrofobia è indispensabile mettersi nell’ottica giusta: non ci troviamo in un classico giallo “whodunit”, basato cioè sulla scoperta dell’assassino, o meglio il meccanismo thriller cede presto il passo a una dimensione paradossale e allucinatoria che ricorda il David Lynch di Strade perdute ma anche il Lucio Fulci de Le porte del silenzio e le psicosi dei film di Roman Polanski. Non esiste una soluzione razionale a quanto vediamo, ma una serie di incubi concentrici e paradossi temporali che sdoppiano situazioni e personaggi: la sceneggiatura (de la Vega, Nicanor Loreti, German Val) è complessa, congeniata in modo da spiazzare lo spettatore che si aspetta magari di assistere a un giallo puro trovandosi invece di fronte a qualcosa che ha sì i caratteri del giallo, ma al contempo assume una valenza più complessa e autoriale. Ma Necrofobia è anche un sentito omaggio al thriller italiano anni Settanta e un viaggio – surreale ma al contempo sanguinario – nella mente malata di un serial killer dalla doppia personalità.

Fin dalla prima inquadratura notiamo come de la Vega voglia costruire un mondo visivo che recupera elementi e scenografie dal genere italiano: un atelier con manichini (elemento perturbante per eccellenza), spesso avvolti in sacchi di plastica trasparenti, una figura vestita di nero, lame di vario tipo esposte in bella vista – il tutto fotografato con quell’immagine “flou” e dai contorni lattiginosi che caratterizza il film e che richiama i toni psichedelici squisitamente seventies. Impossibile non pensare al maestro Mario Bava, che già negli anni Sessanta anticipa e codifica i canoni futuri del genere con Sei donne per l’assassino e Il rosso segno della follia, ambientati entrambi in atelier di moda con scenografie ricche di inquietanti manichini – anticipatori delle bambole che vedremo nel capolavoro Profondo rosso e in altri emuli; possiamo cogliere inoltre omaggi al successivo thriller di Bava Cinque bambole per la luna d’agosto, con i cadaveri avvolti in sacchi di cellophane, ma pure all’americano Maniac. Anche il look dell’assassino (impermeabile, cappello e guanti neri) è di derivazione baviana e argentina, le sequenze allucinatorie al cimitero possono evocare alcuni classici come La morte ha sorriso all’assassino e il suddetto Le porte del silenzio, mentre il killer che fa a pezzi il cadavere con una sega (anche se quasi tutto avviene fuori campo) deriva chiaramente da Torso di Sergio Martino.

Ma, come in ogni neo-giallo che si rispetti, il regista va oltre il semplice omaggio – rendendo l’opera più personale e interessante. La cifra stilistica primaria di Necrofobia è l’assurdo, il paradosso: non si entra nel soprannaturale tout-court, ma vengono sovvertite tutte le leggi della logica spazio-temporale. Per cui, accade ad esempio che il protagonista si trovi di fronte al proprio doppio o si trovi a vivere una situazione che già aveva vissuto in passato, creando un corto-circuito narrativo non spiegabile razionalmente, ma proprio per questo suggestivo e inquietante (pensiamo al personaggio lynchiano di Strade perdute, che si trova in due luoghi diversi contemporaneamente). La sceneggiatura delinea un complesso ritratto di serial killer, che non solo ha una doppia personalità “alla De Palma” ma addirittura si triplica: Dante, la sua “metà oscura” e il fratello Tomas – tre ruoli in cui il bravissimo attore Luis Machin, perfetto nel fisico minuto e nella mimica facciale nevrotica, si cala a meraviglia e con evidente partecipazione. Il mistero sull’identità dell’assassino lascia poi il posto a una serie di incubi concentrici in cui realtà e allucinazione si confondono, lasciando libero sfogo alle follie e psicosi del personaggio, quasi polanskiano per certi versi. Pensiamo al claustrofobico incubo ambientato al cimitero, in cui Machin corre fra le tombe ritrovandosi sempre allo stesso punto, alle sequenze con protagonisti i manichini, oppure al lungo confronto finale fra Samot e il suo doppio. Particolarmente curate e funzionali sono le location e le scenografie, dal cimitero al suddetto atelier coi manichini che “osservano” minacciosi, dall’obitorio fino alla tetra abitazione di Samot. Necrofobia è un film dall’atmosfera profondamente sepolcrale e psicotica, in cui la morte e la follia (già contenute nel titolo) dominano ogni scena: un’opera dark, nerissima, in cui il ritratto di un assassino si trasla pian piano in una dimensione irreale ma rimane al contempo terribilmente concreto. La solida regia e la robusta sceneggiatura danno vita infatti a un thriller maturo, che non può lasciare indifferente lo spettatore grazie anche alla magnetica interpretazione di Machin e all’efficacia degli altri attori.

Completano il tutto la fotografia “flou” e psichedelica di Mariano Suarez (allucinata come tutto ciò che vediamo), le ricche scenografie e le musiche ossessive di Claudio Simonetti. Le sequenze più strettamente orrorifiche sono poche, ma efficaci in quanto realizzate con cura e con ottimi effetti speciali artigianali: in primis la mano mozzata, ma anche la gola tagliata, la poliziotta uccisa selvaggiamente con una forbice e il cadavere della moglie di Samot ricoperto di tagli. Notevole, anche se priva di sangue, è la scena dell’uccisione del prete nel confessionale.

La colonna sonora

Un esplicito omaggio al thriller italiano anni Settanta lo troviamo nella colonna sonora, affidata al maestro del genere Claudio Simonetti. Un nome storico, non solo in Italia, in quanto membro dei Goblin con i quali realizzò le musiche per molti film di Dario Argento (Profondo rosso, Suspiria, Tenebre) ma anche per Zombi di George A. Romero. Tutt’ora molto attivo nel cinema, in Necrofobia compone da solista brani musicali che riprendono il suo classico stile ossessivo e psichedelico. Non realizza temi che rimangono impressi come quelli dei film suddetti – e d’altronde questa è una caratteristica spesso presente oggi, anche in ottimi film. Tuttavia, i pezzi sono assolutamente efficaci per l’atmosfera della storia, anzi sono parte integrante del flusso d’immagini: le note pulsanti e dissonanti, con vocalizzi e sferzate acustiche spazianti dal grave all’acuto, creano un impasto sonoro che contribuisce notevolmente a catturare lo spettatore in questa allucinante storia.

Davide Comotti

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