Thriller: Pupi Avati – Il nascondiglio (2007), con una grande Laura Morante

Intorno al film

Pupi Avati, regista e sceneggiatore fra i più celebri in Italia, può vantare una carriera eclettica e trasversale che si snoda in vari decenni e generi: attivo dal 1970 ad oggi, riesce a passare con duttilità dalla commedia agrodolce al thriller, dalla parodia all’horror – attraversando più di 40 anni di cinema e mantenendo quel tocco da “narratore popolare” che rende affascinanti molti suoi film. Nonostante molte sue opere risultino un po’ ripetitive, il genio di Avati consiste nel realizzare di tanto in tanto quel film strepitoso che non ti aspetti, apparentemente estraneo alla sua cinematografia eppure così efficace e riconducibile ai suoi stilemi culturali. È questo il caso de Il nascondiglio (2007), che segna il ritorno di Pupi Avati al thriller dopo anni e porta una ventata di aria nuova in un genere che in Italia sta conoscendo un periodo di declino.

locandina

La vicenda

Nel 1957, una cittadina dell’Iowa è sconvolta da un fatto di sangue avvenuto all’interno di un ospizio gestito da suore: tre donne sono brutalmente assassinate e l’assassino non viene ritrovato. Cinquant’anni dopo, una donna di origini italiane (Laura Morante) – appena dimessa da un ospedale psichiatrico – acquista l’edificio per abitarci e aprire un ristorante. L’apparente quiete è turbata però da voci e rumori che sente provenire dal piano superiore, disabitato: convinta che non si tratti delle allucinazioni di cui soffriva, inizia a indagare scoprendo il delitto avvenuto anni prima. Nella cittadina vige un clima di silenzio omertoso, e le uniche persone che sembrano aiutarla sono Padre Amy (Treat Williams) e un’anziana signora (Rita Tushingam): presto si ritroverà però sola contro tutti per arrivare a scoprire una verità sconvolgente.

Narrazione e stile

Il nascondiglio è un film che non nasce dal nulla o da un’improvvisa ispirazione. Infatti, nonostante sia conosciuto al grande pubblico soprattutto per le commedie e i ritratti generazionali, Pupi Avati ha compiuto nel corso degli anni varie ed eccellenti incursioni nel genere thriller e horror: dopo il capolavoro La casa dalle finestre che ridono (1976), ancora oggi uno dei migliori e più agghiaccianti nel genere, Avati vira sul versante soprannaturale con l’altrettanto riuscito Zeder (1983) e con il più lento ma affascinante L’arcano incantatore (1996) – senza contare i lavori “sperimentali” realizzati agli esordi e varie sceneggiature dirette da altri registi. Considerando questi quattro film fondamentali, troviamo date abbastanza distanti fra loro – 1976, 1983, 1996, 2007 – a testimonianza di un modo di fare cinema abbastanza “anarchico”, mai vincolato a una moda o a un periodo. Il suo corpus di film, nonostante questa varietà di generi, è abbastanza omogeneo nella sostanza narrativa: un cinema profondamente vincolato alla tradizione popolare, ai ricordi, alle leggende, all’atmosfera chiusa e “cospirativa” di certi paesini di campagna – frutto delle sue esperienze biografiche.

Se l’ambientazione dei precedenti thriller era la Pianura Padana e dintorni, con un bellissimo effetto straniante e “agreste”, Il nascondiglio si sposta a sorpresa negli Stati Uniti, ma l’atmosfera non cambia (infatti il soggetto e la sceneggiatura sono scritti dallo stesso Avati): un paese di provincia, un’atmosfera cupa, una comunità omertosa, una casa “maledetta”, un oscuro segreto da scoprire e una protagonista in cerca della verità – sempre in bilico fra realtà, allucinazioni e soprannaturale. A differenza di Zeder e L’arcano incantatore, Avati sceglie di tornare alla soluzione razionale (o semi-razionale), non per questo meno angosciante. La scelta dell’ambientazione americana – ipotizza chi scrive – può essere dovuta a una certa esigenza di conformarsi agli standard del cinema thriller moderno: il Paese che ne produce di più è senza dubbio gli Stati Uniti, dove ogni anno nascono film incentrati su misteri da scoprire e spesso ambientati proprio in luoghi inquietanti come ospizi e orfanotrofi.

Il grande merito di Avati è di mantenere comunque le stesse atmosfere dei suoi film “padani” trasposte in una vicenda d’oltreoceano: certo, non siamo di fronte a un capolavoro come La casa dalle finestre che ridono o Zeder, ma il risultato è eccezionale, sicuramente uno dei più bei thriller degli ultimi anni e che continua a regalare brividi agli spettatori. Il nascondiglio, come sempre nel suo cinema, è giocato in egual misura su “atmosfera” e “trama”: l’affascinante location che rappresenta la “Snakes Hall”, le misteriose presenze e i sussurri che si percepiscono nella tetra magione si mescolano a meraviglia con una storia gialla che si ricompone pezzo per pezzo come in puzzle. Le case e i monasteri italiani lasciano il posto a questa immensa e tetra abitazione, il cui aspetto gotico la avvicina a un castello abbandonato, con un eguale effetto perturbante: ricco di icone raffiguranti serpenti, con i suoi grandi stanzoni e il “piano proibito”, diventa sempre più un labirinto da incubo in cui giocano un’importanza fondamentale anche le condutture dell’aria (il “nascondiglio” del titolo). Lo spettatore è condotto per mano a immedesimarsi nella protagonista (il cui nome non viene mai detto), vivendo con lei questo inquietante viaggio alla scoperta dei segreti più reconditi di un’ostile comunità (e anche di lei stessa): anche l’atmosfera omertosa e cospirativa è squisitamente “avatiana” (la troviamo in tutti i suoi thriller), con gli uomini nell’ombra che vogliono tenere nascosto un segreto, persone ambigue (vedasi il prete e l’anziana signora) e pochi veri alleati (l’avvocatessa). Da notare come nel cinema di Pupi Avati siano spesso presenti figure della Chiesa viste da una prospettiva abbastanza equivoca, quando non addirittura negativa: così come il parroco de La casa dalle finestre che ridono o gli spretati di Zeder e L’arcano incantatore, qui troviamo l’austera Madre Superiora e l’ambiguo Padre Amy. Alcune sequenze sono veramente da brivido: basti pensare alle inquietanti voci infantili che la protagonista sente attraverso le mura o il finale in cui la “presenza” si concretizza e viene svelato l’orribile segreto. Ma non solo: il thriller di Pupi Avati è giocato molto sulle suggestioni (è “impressionista”, in un certo senso) e la minaccia si cela dietro ogni angolo – uno sguardo torvo da una macchina, un uomo dietro una porta, una riunione di volti ignoti, oppure ombre e presenze che si palesano appena (grazie anche a un’ottima fotografia con bei contrasti di luci e ombre).

Il nascondiglio si regge parecchio – va detto – anche sull’ottima performance di Laura Morante, grande attrice di cinema e teatro che come sempre dà spessore al personaggio e lo carica di una forte partecipazione emotiva, grazie anche a una voce “teatrale” e qui spesso “sussurrata”. È lei la vera mattatrice del cast, composto da attori di gran prestigio internazionale: Treat Williams (C’era una volta in America), Rita Tushingam, Burt Young (la saga di Rocky, qui nel ruolo dell’agente immobiliare), Yvonne Sciò (l’avvocatessa), oltre ad alcuni illustri camei di Angela Goodwin (la Madre Superiora), Sydne Rome, Francesco Carnelutti (lo psichiatra) e di due attori cult del cinema italiano anni Ottanta, Giovanni Lombardo Radice e Venantino Venantini. Tanti nomi per un ricco mosaico di personaggi, più o meno importanti, tutti però gravitanti attorno alla Morante – protagonista indiscussa del film.

La colonna sonora

Pupi Avati presta la massima attenzione alla colonna sonora, fondamentale nella costruzione dell’atmosfera. Per Il nascondiglio richiama all’opera Riz Ortolani, uno dei più grandi compositori italiani di musiche per film, che aveva già collaborato con lui in Zeder e che qui scrive un tema portante simile al precedente: ugualmente efficace, è composto da archi che stridono in maniera ossessiva e martellante, forse una metafora dell’ossessione che tormenta la protagonista. Le musiche stridenti accompagnano poi le sequenze di maggiore tensione. Notevole, inoltre, la riproposizione del celebre brano Magic moments (Bacharach – David), nota soprattutto per l’interpretazione canora di Perry Como: qui ritorna come inquietante leit-motiv cantato sia dalla protagonista che dalla novizia e dalla “presenza”.

Davide Comotti