Un’inno al potere: l’Ara Pacis di Augusto

Nell’anno appena passato Roma ha festeggiato il bimillenario della morte di uno dei suoi più grandi personaggi, colui che, secondo le sue parole trovò una città di mattoni e la restituì di marmo: l’imperatore Augusto.

Gaio Giulio Cesare Ottaviano fu il fondatore della dinastia giulio-claudia; egli stesso si affibiò il titolo di Augustus come attributo divino, allusivo all’eccellenza delle sue virtù.

Dopo le guerre civili, il nuovo imperatore si presenta come restauratore della civiltà, come portatore di una nuova età dell’oro. I poeti e i prosatori del suo tempo, che erano tra i più grandi mai esistiti (Orazio, Ovidio, Livio e Virgilio), sostenevano appieno e decantavano il nuovo regime. Come la letteratura, anche l’arte e l’architettura erano al servizio dell’imperatore per diffondere l’ideologia imperiale: il puro classicismo era lo stile prediletto.

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Uno dei risultati di questa propaganda politica fu l’Ara Pacis Augustae, ovvero l’Altare della Pace Augustea. Non è azzardato ritenerere che un progetto politico espresso nell’arte come in questo caso non porterà mai ad un tale risultato. In occasione del bimillenario l’Ara Pacis è colorato grazie a delle proiezioni fatte direttamente sul marmo: in origine l’altare, come quasi tutte le sculture del mondo antico, doveva avere una sua policromia.

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L’Ara Pacis fu costruito nel 13 a.C. e inaugurato nel 9 a.C. Doveva celebrare il ritorno vittorioso di Augusto dalla Gallia e dalla Spagna, ed esaltare quindi il potere augusteo attraverso un programma iconografico ben preciso. L’altare, circondato dal recinto sacro, rappresenta l’immagine della Roma antica e pia; la balaustra esterna invece, col suo apparato scultoreo, vuole testimoniare come la gens Iulia, la famiglia di Augusto, abbia una storia in comune con le origini di Roma. Dell’altare in realtà non restano che pochi frammenti, da cui si deduce che a decorarne la superficie doveva esserci un sacrificio (tema adatto, in effetti, alla funzione dell’altare).

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Sulle pareti esterne si estende invece una decorazione vegetale solo apparentemente casuale, perchè si attiene invece ad una rigidissima partizione geometrica. Piante reali e fantastiche si intrecciano tra loro e gli unici elementi che esulano da questo rigido schema sono dei piccoli insetti e lucertole sparse qua e la tra la vegetazione.

Quattro fregi poi decorano l’esterno: uno di questi rappresenta Enea, ormai anziano, mentre celebra un sacrificio. Vicino a lui Ascanio, il figlio, detto anche Iulo (da qui gens Iulia). Un parallelismo doveva collegare quest’immagine, che rappresenta l’origine della famiglia di Augusto, con un fregio ormai perduto che rappresentava la nascita di Roma.

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Vediamo l’immagine dell’imperatore su un altro pannello decorato, in mezzo alla processione che si teneva ogni anno per il sacrificio alla Pax Augusta.

La politica di Augusto si occupò anche delle opere pubbliche: sua è la decisione di costruire il nuovo Foro, un complesso che incarna perfettamente la sua ideologia politica.

La nuova cultura non si spegne con la morte dell’imperatore, ma prosegue con tutti i successori della dinastia giulio-claudia.

Secondo quanto racconta Svetonio, la morte di Augusto fu preannunciata da alcuni eventi: un fulmine colpì l’iscrizione della sua statua e ne fece cadere la prima lettera, la C di Caesar, il che significava che sarebbero mancati 100 giorni alla sua morte. Sempre secondo il suo racconto l’imperatore, l’ultimo giorno della sua vita, chiese uno specchio, si sistemò i capelli, chiamò a se moglie e amici e li salutò, congedandoli con un’ultima frase prima di spirare tra le braccia della moglie: “Se la commedia è stata di vostro gradimento, applaudite e tutti insieme manifestate la vostra gioia.”

Così finivano tradizionalmente le commedie romane e così moriva il primo imperatore di Roma, uno dei più grandi personaggi che la città abbia mai conosciuto.

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