Amnistia e indulto: essere o non essere?

La giustizia si manifesta attraverso la pena certa e garantita?

Questa domanda nasce spontanea in questi giorni perché scopriamo che c’è chi ancora crede nell’equazione di valore letterario pena=giustizia, dimenticando che solo un corretto senso della giustizia può generare giustizia.

Spesso consideriamo l’ambiente stato come un spazio di tutela e garanzia, dimenticando che lo Stato siamo noi, e che per questo non dovremmo ambire ad un apparato garantista della legge, ma dovremmo costruire la giusta struttura per la tutela dei bisogni umani, che si leghi a una legislazione necessariamente e universalmente valida per ogni uomo.

I padri fondatori o costituenti di qualsiasi Stato nazionale o di strutture sovranazionali sapevano e sanno questo, tant’è che da questo tipo di riflessione siamo arrivati alla Carta dei diritti dell’uomo, e alle Costituzioni degli Stati che regolano la vita delle persone.

Ma in questi giorni sono anche riemerse due parole: amnistia o indulto, con tutte le conseguenti considerazioni. Da sempre questi termini producono divisione tra chi è schierato a favore e chi è contro la soluzione che rappresentano, e da sempre ogni confronto è fatto senza approfondire l’unico argomento utile per risolvere il problema: il nostro senso di giustizia.

Evitando di parlarne saltiamo a pie pari la domanda:”Qual’è il mio senso di giustizia?“, che se affrontata in totale onestà ci farebbe scoprire che: se fossimo in carcere saremmo favorevoli; se fossimo vittime saremmo contrari; e se non fossimo ne uno ne l’altro probabilmente demanderemmo ad altri la decisione, con buona pace della giustizia.

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Se, inoltre, dovessimo guardare alla storia dell’uomo non avremmo di che essere fieri, anzi comprenderemmo che siamo l’essere meno legato alla giustizia naturale, che produce equilibri di sistemi perfetti e dove si dice valga la legge del più forte. Scopriremmo che a questa legge abbiamo aggiunto quella dell’intelligenza più forte, mettendoci al di sopra di tutte le regole naturali.

Ma questo è un punto, non il punto.

Il senso di giustizia dell’uomo è stato storicamente affrontato da tutti, è l’argomento che riporta tutte le scienze a riunirsi nella Filosofia, perché si è consapevoli che da una vera riflessione filosofica può nascere una risposta che arrivi ad eliminare il secolare problema della prevaricazione umana, e questo è il punto.

Le opere filosofiche in cui viene affrontata questa incapacità di essere oggettivi ed equi, nella gestione della giustizia, ci portano linearmente da Nietszche a Socrate, facendoci scoprire che non ci siamo mai spostati dalla posizione raggiunta da quest’ultimo. La Filosofia ha inoltre dimostrato quanto sia forte la prevaricazione, sottolineando come si rinforzi con l’uso della retorica, capace di annullare il peso della verità; di come tutto inizi dall’impossibilità di parlare con chi non vuole aprirsi al confronto, e spiegando che tutto sia basato sul non tener conto degli errori ma solo della soddisfazione dei piaceri.

Il concetto di prevaricazione, con tutti gli effetti positivi per l’egoismo umano e negativi per la gestione della “Città”, la polis composta dalla gente, vengono specificatamente affrontati in diverse opere di Platone, che su questo argomento secolare scrisse l’Apologia di Socrate e la Lettera Settima.

In entrambi i testi affrontò apertamente e onestamente il tema della prevaricazione, figlia dall’incapacità di saper vivere oggettivamente la giustizia, oltre che offrire una testimonianza eterna di fatti che, seppur temporalmente lontani, sono facilmente riscontrabili nel nostro quotidiano.

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Partendo dalla lettura di questi documenti e salendo nel corso della storia; affrontando altre visioni sull’argomento; imparando ad avere un vero confronto con altre persone, si è portati a capire che l’equazione pena=giustizia è un’equazione fallimentare.

Socrate stesso venne condannato a morte certa perché giudicato colpevole di empietà, e autore di fatti realmente non compiuti, proprio da chi sbandierava questo concetto e per effetto di un processo in cui:“in udire i miei accusatori, non so; ma io, per cagion loro, poco meno mi dimenticai di me stesso, cosí parlarono persuasivamente.”, subendo una condanna a cui non si sottrasse dicendo “Ma già ora è di andare: io, a morire; voi, a vivere.”  (Apologia di Socrate).

Platone sostenne che la giustizia è tale quando non produce morti ma genera pace, tant’è che scrisse “non sia asservita la Sicilia, né alcuna altra città, ma vivano tutte sotto l’imperio delle leggi, questo io dico. La tirannide non giova né agli oppressori, [d] né agli oppressi, né ai figli e ai discendenti dei figli: al contrario, è un’esperienza assolutamente rovinosa. E’ solo la gente meschina e servile quella che ama tali guadagni, la gente che non sa nulla di quanto è buono e giusto, umanamente e divinamente, sia per il presente che per il futuro.” (Lettera VII) Nei tempi moderni Nietzsche nelle sue opere ci portò a riflettere sull’importanza di un uomo dedicato alle generazioni future e non alla guerra, da lui considerata come figlia della menzogna.

Oggi c’è chi si divide tra chi è a favore e chi è contro l’amnistia o l’indulto, senza capire che l’Italia ha un sistema carcerario inumano e inadatto per il corretto reinserimento delle persone. Oggi qualcuno è pronto ad iniziare una guerra nel nome della propria legalità. Questa non può essere considerata giustizia, questo non è buon senso di giustizia.

Per chi volesse approfondire le letture delle due opere richiamate nell’articolo, rimando all’associazione Liberi Liber dove potrà trovare copia gratuita in formato digitale del testo Apologia di Socrate, e a questo file in formato word per la Settima Lettera di Platone Dispense20110905_LetterasettimaPlatone

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