Luigi Zampa, uno dei più prolifici autori della commedia all’italiana più autoriale, diresse negli anni Settanta un’ideale trilogia drammatica d’impegno civile e politico: Bisturi la mafia bianca (1973), sulla malasanità; Gente di rispetto (1975), sulla mafia; Il mostro (1977), sul potere della stampa. Il carattere impegnato di questi film non deve essere visto come una svolta in controtendenza da parte di Zampa rispetto alle sue opere precedenti, quanto piuttosto una spontanea e aspra evoluzione dei toni mordenti che avevano caratterizzato la maggior parte della sua cinematografia. Bisturi la mafia bianca è probabilmente il migliore dei tre: il più audace, il più intenso, quello meglio interpretato; scritto dallo stesso Zampa insieme a Massimo De Rita e Arduino Maiuri, è un capolavoro del cinema di denuncia civile, e conserva tutt’oggi una caratteristica di preoccupante attualità.
Il professor Daniele Vallotti (Gabriele Ferzetti), autentico “barone” della medicina, amministra la sua clinica privata come una società per azioni, anteponendo il profitto alla salute dei pazienti, che vengono selezionati in base al reddito e sono semplici numeri sui quali arricchirsi. Coperto da una facciata di altruismo e dall’omertà dei colleghi, trova l’unica opposizione nel dottor Giordani (Enrico Maria Salerno): egli trova il coraggio di denunciarlo, ma il primario, per screditarlo, gli fa sbagliare un’operazione, causando la morte del paziente.
Negli anni Settanta, il tema della malasanità era praticamente nuovo per il cinema: lo aveva trattato in precedenza lo stesso Zampa nella commedia agrodolce Il medico della mutua (1968) con Alberto Sordi. In Bisturi la mafia bianca cambia però completamente registro, dirigendo un apologo coraggioso, drammatico e pregno di crudo realismo sui cosiddetti “baroni” della medicina, di cui il professor Vallotti è un rappresentante. La classe medica viene raffigurata come una “mafia” (o una “casta”) con precise regole e gerarchie, in cui ciò che conta è esclusivamente il guadagno e il prestigio: “essere medico implica l’esercizio del potere”, “il bisturi è come uno scettro” sono le massime che guidano il primario Vallotti e che vengono da lui stesso enunciate senza mezzi termini, in un delirio di onnipotenza, nell’incontro-scontro finale con il suo rivale, il dottor Giordani. Bisturi la mafia bianca è un film dove si fondono continuamente il dramma psicologico (le tragedie dei pazienti che muoiono e lo strazio dei parenti sono davvero forti e toccanti) e l’analisi sociologica: la malasanità, i rapporti fra il potere medico e il potere politico, con accenni alla riforma sanitaria e universitaria, alla statalizzazione delle imprese e persino all’influenza del governo (pensiamo al coraggio che Zampa ha avuto nel trattare questi temi, e alla loro attualità).
Fondamentali risultano le straordinarie interpretazioni di Gabriele Ferzetti ed Enrico Maria Salerno, intensi e sublimi nei rispettivi ruoli: crudele e apparentemente altruista il primo, disilluso e amareggiato il secondo. Il professor Vallotti si reca periodicamente in un ambulatorio pubblico per mostrarsi agli occhi di tutti come un benefattore, ma nella sua clinica privata non risparmia le azioni più abiette pur di guadagnare e mantenere il suo prestigio: seleziona i pazienti da operare in base al loro reddito, tratta l’acquisto di farmaci in base a una logica puramente economica, gioca con le vite dei pazienti e non esita a lasciarli morire se necessario. Per lui essere medico significa esercitare un potere di vita e di morte sugli altri. Come a un potente boss mafioso, tutti gli obbediscono (per omertà o per convenienza), tranne il medico interpretato da Enrico Maria Salerno: pungente, forte e sarcastico ai massimi livelli, delinea un personaggio particolarmente complesso. Schifato dai colleghi e dalla vita in generale, denigrato quasi da tutti per il vizio dell’alcool, trova amicizia solo in una suora (Senta Berger), con la quale si crea un feeling che quasi sboccia in amore. Da notare anche un cameo di Luciano Salce, a sua volta regista e attore d’impegno civile, nel ruolo di un grottesco paziente.
Una falsa diceria voleva che il cinema di Luigi Zampa fosse abbastanza “rozzo”, poco attento allo stile. In realtà, come spiega il critico Alberto Pezzotta, non è affatto così, e Zampa è sempre abile ad equilibrare forma e contenuto, rigore stilistico e narrazione dura e appassionante. Basti citare due sequenze per comprendere la raffinatezza stilistica di questo autore: l’angosciante piano sequenza che inquadra dall’alto le sale operatorie, con l’unico sottofondo sonoro del “bip” delle apparecchiature mediche, e l’ultima sequenza del film. Il professor Vallotti, consapevole di essere affetto dal morbo di Parkinson e di non potersi fidare di nessuno, si aggira inquieto nella sua villa, e i suoi primi piani tormentati sono intervallati, con un abile montaggio alternato, dai ricordi di quanto ha vissuto in precedenza, il tutto accompagnato dalle musiche ossessive reiterate per tutto il film.
La colonna sonora è realizzata da Riz Ortolani, uno dei più grandi maestri italiani della musica per il cinema. Abituato a mescolare sapientemente ritmi serrati con melodie di ampio respiro, non fa eccezione per Bisturi la mafia bianca. Sui titoli di testa sentiamo subito il tema centrale: un ritmo sincopato, con accordi bassi e ripetuti regolarmente in maniera ossessiva (quasi una metafora del battito cardiaco), che si sviluppa poi in una sonorità più corale mantenendo però lo stesso andamento. Un tema musicale piuttosto semplice, ma assolutamente azzeccato: ritornando spesso con tonalità differenti (più alte o più basse), il suo carattere cupo e ossessivo è un perfetto accompagnamento dell’atmosfera che, inevitabilmente, si respira lungo tutto il film.