DYLAN DOG, TRA FUMETTO E CINEMA

Mai come in questo periodo il rapporto fra Dylan Dog e il cinema sta facendo parlare di sé: da un lato, Dario Argento ha scritto il soggetto e co-sceneggiato (insieme a Stefano Piani) l’albo inedito dell’Oldboy Profondo nero, disegnato dallo storico fumettista Corrado Roi; dall’altro, la casa editrice Sergio Bonelli ha annunciato che sarà realizzata una serie televisiva sull’Indagatore dell’incubo, tramite la Bonelli Entertainment: “il braccio produttivo della nostra Casa editrice, votato allo sviluppo di progetti cinematografici e televisivi basati sui nostri personaggi e sulle nostre storie”, così è indicata sul loro sito ufficiale.

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Nato dalla mente e dalla penna dello scrittore Tiziano Sclavi, il fumetto horror Dylan Dog è diventato da anni un fenomeno di culto per gli appassionati: nel 1986 uscì il primo numero (L’alba dei morti viventi), e ora con Profondo nero ha raggiunto il numero 383, senza contare le innumerevoli ristampe e albi speciali. Nato come fumetto dai tratti esplicitamente orrorifici (per lungo tempo, Dyd ha dovuto affrontare zombi, fantasmi, lupi mannari, vampiri, serial killer, e così via), nel corso degli anni ha conosciuto un inasprirsi della dimensione più metafisica e “filosofica” (che in fondo ha sempre avuto), in cui l’orrore diventa una metafora del male di vivere quotidiano, delle tragedie del mondo e della follia dell’uomo, continuando (forse anche per questa progressiva evoluzione) a interessare appassionati e studiosi. Con il numero 337 Spazio profondo, Dylan Dog ha intrapreso un nuovo corso, attraverso l’introduzione di nuovi personaggi e poi anche un cambio del copertinista – Gigi Cavenago è subentrato allo storico disegnatore Angelo Stano.

Il rapporto di Dylan Dog con il cinema ha sempre avuto però un rapporto complicato, anche per un fatto di diritti d’autore: fino a poco tempo fa, cioè fino a quando la Bonelli ha riacquistato i diritti, essi erano detenuti da una società americana che ha prodotto Dylan Dog – Il film (2011) di Kevin Munroe, un discreto film horror che però non ha nulla o quasi a che spartire con il fumetto che conosciamo. Del resto, anche gli altri personaggi dei fumetti italiani hanno avuto rapporti complessi con il cinema. Tex Willer è stato trasposto in Tex e il signore degli abissi (1985) di Duccio Tessari – specialista del western all’italiana – ma, pur essendo all’occhio di chi scrive un ottimo film, è stato contestato da pubblico e critica, in sostanza si è rivelato un fiasco e ha interrotto sul nascere altri possibili trasposizioni. Non è andata meglio con Zagor, che è stato portato al cinema solo da qualche bizzarro e apocrifo film turco, mentre sono stati più fortunati in tal senso i personaggi estranei all’editore Bonelli: Satanik, Kriminal e soprattutto Diabolik sono diventati omonimi film di culto.

Negli ultimi anni, con la proliferazione del cinema indipendente, Dylan Dog è stato trasposto invece in fan-film – vale a dire film (corti, medi o lunghi) auto-prodotti e soprattutto senza nessuno scopo di lucro. I risultati sono stati altalenanti: in mezzo a vari esperimenti ludici, un po’ amatoriali e senza pretese (ricordiamo i fan movie di Denis Frison e soprattutto Il trillo del diavolo di Roberto D’Antona, attore e regista oggi sbarcato nel professionismo), troviamo due opere di tutto rispetto: il cortometraggio House of shells di Domiziano Cristopharo e il mediometraggio Vittima degli eventi di Claudio Di Biagio – tanto metafisico e onirico il primo, quanto divertente e citazionista il secondo, in grado entrambi di ricreare (seppure con tutti i limiti del caso) il mondo dell’Oldboy. Sul Dylan Dog di Munroe, a cui si accennava prima, si può sorvolare: trattasi di un personaggio che dell’Indagatore dell’Incubo ha solo il nome e l’aspetto fisico, ma nient’altro; ambientato a New Orleans, il nostro è stato mutato in un semplice cacciatore di mostri, tanto che sembra di trovarsi in un qualsiasi horror o cinecomic che ha davvero poco o nulla da spartire con l’universo di Dylan Dog.

Il vero alter-ego cinematografico di Dylan Dog, a tutt’oggi, è un paradosso: infatti, se vogliamo trovare un autentico film su Dylan Dog dobbiamo vedere un film in cui il protagonista in realtà è un altro, cioè Dellamorte Dellamore (1994) di Michele Soavi. Essendo Dylan una creazione italiana, chi meglio di un italiano poteva coglierne i tratti caratteristici e trasporli sul grande schermo? Ci pensa il grande regista Michele Soavi, dopo aver diretto una trilogia dal sapore “argentiano” (Deliria, La chiesa, La setta), a realizzare nel 1994 un’opera assolutamente innovativa dal punto di vista tematico e stilistico: Dellamorte Dellamore, una co-produzione fra Italia, Francia e Germania. Parlando del rapporto tra film e fumetto, delucida bene la situazione il critico cinematografico Manuel Cavenaghi nel suo libro Cripte e incubi – Dizionario dei film horror italiani (2011), ottimo compendio di tutto il cinema di paura nostrano: “Tiziano Sclavi, l’autore del romanzo da cui è tratta questa storia (rimasto inedito per otto anni e pubblicato solo nel 1991), è il creatore del fenomeno fumettistico Dylan Dog; Dellamorte è il personaggio su cui lo scrittore ha poi modellato Dylan, mentre Rupert Everett, l’interprete principale di questo film, è stato a suo tempo il riferimento per dare un volto all’indagatore dell’incubo pubblicato da Bonelli dal 1986 a tutt’oggi”.

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Il protagonista di Dellamorte Dellamore non è infatti Dylan Dog, ma Francesco Dellamorte, custode del cimitero di Boffalora. Eppure, chi conosce il fumetto e inizia a guardare il film si immerge subito nella suggestiva atmosfera che permea le storie dell’Indagatore dell’Incubo: nome a parte, il protagonista del film è Dylan Dog. Anche esteticamente, i due sono costruiti in modo quasi identico: capelli neri, carnagione pallida, estetica decadente (che ha molto fascino sulle donne), abbigliamento con giacca, camicia e jeans, persino lo stesso modello di pistola (Bodeo). Come spiega Cavenaghi, infatti, la pellicola di Soavi è tratta dal romanzo omonimo di Tiziano Sclavi, l’inventore del personaggio di Dylan Dog: possiamo dire che Francesco Dellamorte è una sorta di suo alter-ego, e che è stato per lo scrittore una specie di prova generale per la costruzione di Dylan Dog. Cambia l’ambientazione (Londra nel fumetto, la provincia milanese nel film), ma l’atmosfera è sempre quella: momenti di horror puro mescolati a un macabro senso dell’umorismo squisitamente inglese e a situazioni surreali, quasi metafisiche, che vogliono essere una metafora dell’assurdità della vita espressa dall’autore. Il personaggio di Dellamorte viene nominato anche in due episodi della saga di Dylan Dog, e compare nell’albo speciale numero 3, Orrore nero (pubblicato nel luglio 1989): una vicenda che, in parte, riproduce quella del romanzo da cui è tratto il film.

Francesco Dellamorte (Rupert Everett) è il custode del cimitero di Boffalora, dove abita insieme all’assistente muto Gnaghi (François Hadji-Lazaro): per qualche oscuro motivo, di notte i morti si risvegliano dal loro sonno eterno, e il becchino deve sparare loro in testa per ucciderli definitivamente. La sua vita trascorre in modo monotono (per lui uccidere gli zombi è pura routine), fino a quando incontra una vedova (Anna Falchi) di cui si innamora. Da quel momento, la sua mente precipita sempre più in un abisso di follia, e quando cercherà di scappare dal paese, scoprirà che gli è impossibile varcarne i confini.

Dopo i primi anni Ottanta, l’horror italiano subisce un parziale declino, ed è proprio Michele Soavi a risollevarne le sorti, soprattutto con questo film, che è il suo capolavoro del cinema di paura. Un autentico horror d’autore, che inizia in modo classico (una storia di zombi), ma prosegue secondo strade stilistiche e tematiche completamente differenti, proprio come succede al personaggio di Dylan Dog. Partendo dal già citato romanzo di Sclavi come soggetto, Gianni Romoli ne scrive la surreale e ammaliante sceneggiatura.

Il titolo Dellamorte Dellamore è un riuscito doppio senso: uno metaforico, come espressione del connubio fra Eros e Thanatos (amore e morte) che permea tutto il film, e uno più concreto (nel corso del film, il protagonista spiega che “Dellamore” era il cognome della madre). Gli ottimi effetti speciali e l’ambientazione inquietante e decadente fanno della pellicola un ottimo horror, ma, come accennato in precedenza, anche l’umorismo e l’elemento surreale sono importanti (per dare un’idea, pensiamo al discorso sul cimitero: “Come mai il filo spinato? Di notte entrano? – No, escono più che altro!”). È proprio lo stesso umorismo, macabro e al contempo raffinato che caratterizza le vicende di Dylan Dog, dove troviamo situazioni assurde e metafisiche che compaiono anche nel film, come l’incontro con la Morte o la strada interrotta che impedisce di fuggire verso il mondo esterno. La pellicola è molto raffinata stilisticamente, grazie all’ottima regia di Michele Soavi (uno dei migliori registi del cinema italiano odierno), alle scenografie suggestive di Antonello Geleng, alla fotografia di Marco Marchetti e alle musiche inquietanti di Manuel De Sica. Ci sono pure alcune curiose simmetrie fra l’indagatore dell’incubo e il custode del cimitero di Boffalora: Dylan Dog ha un assistente chiacchierone e propinatore di battute a raffica (Groucho), mentre l’assistente di Dellamorte è Gnaghi, un uomo grasso, muto e ritardato che sa dire solo “gna”; mentre Dylan Dog è sempre impegnato a costruire un galeone in miniatura che non riesce mai a finire, il suo alter-ego cinematografico fa lo stesso con un teschio.

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