Il giocattolo (1979) di Giuliano Montaldo.

Intorno al film

Giuliano Montaldo è uno fra i nostri registi più impegnati degli anni Settanta, in particolare con la “trilogia” di denuncia del potere (Gott mit uns, Sacco e Vanzetti, Giordano Bruno), ma in precedenza aveva dimostrato di saper dirigere con verve anche noir e polizieschi (Ad ogni costo e Gli intoccabili). Con Il giocattolo (1979) riesce a coniugare magistralmente un discorso più “autoriale” di impegno civile (la sfiducia nella giustizia, il cittadino che si ribella) con tocchi da genere poliziesco.

giocattolo

La vicenda

Vittorio Barletta (Nino Manfredi) è un umile ragioniere romano trapiantato nel Nord Italia che svolge il lavoro di contabile e portavalori presso il finanziere Griffo, il quale lo sfrutta fingendosi amico. La sua paura di essere derubato si concretizza quando è coinvolto nella rapina a un supermercato, in cui rimane ferito a una gamba. Durante la riabilitazione in palestra, conosce il poliziotto Sauro Civera (Vittorio Mezzogiorno), con cui stabilisce un rapporto di sincera amicizia: dopo la rapina, Barletta sente il bisogno di girare armato per potersi difendere, e l’agente lo inizia all’uso della pistola. Quando Civera rimane ucciso in una sparatoria, il ragioniere estrae l’arma e uccide uno dei banditi. Acclamato dall’opinione pubblica come un eroe, deve però fare i conti con la vendetta degli altri gangster: dimostra di sapersi difendere, ma la sua posizione inizia a oscillare. Accusato di eccesso di legittima difesa, deve fare i conti anche con la malattia della moglie Ada (Marlène Jobert) e le frustrazioni del suo lavoro, che lo spingono sull’orlo della follia.

Narrazione e stile

Il cinema è (quasi) sempre uno specchio del periodo in cui nasce, e un caso evidente è l’Italia degli anni Settanta: siamo negli anni di piombo, in cui terrorismo, criminalità e malcontento sociale prendono il sopravvento. Vari registi immortalano il senso di insicurezza e instabilità vissuta dagli italiani, e un filone che prende particolarmente piede è quello del “cittadino che si fa giustizia”, non trovando protezione dallo Stato: nascono così grandi polizieschi come Il cittadino si ribella di Castellari, ma anche opere più squisitamente “d’autore”. Fra queste, il capolavoro Un borghese piccolo piccolo di Monicelli, autentico ritratto di un’epoca, ma anche i notevoli L’arma di Squitieri e soprattutto Il giocattolo di Montaldo, l’ultimo fra tutti questi in ordine temporale.

Il giocattolo è una singolare commistione tra film di denuncia, poliziesco e commedia all’italiana: parecchio diverso da L’arma (che si trasforma più in un dramma introspettivo), si avvicina maggiormente a Un borghese piccolo piccolo – al quale aggiunge una componente d’azione. I tre “generi” che incontriamo nel nostro film possono sembrare incompatibili, ma la sceneggiatura (Sergio Donati, il regista e Manfredi) e la regia sempre impeccabile di Montaldo lo rendono quasi un capolavoro – forse non all’altezza di Monicelli ma altrettanto rappresentativo di un’epoca e di un certo modo di fare cinema, un unicum agrodolce e impietoso che continua ad essere attuale anche a distanza di anni.

Nino Manfredi è impegnato in uno dei suoi pochi ruoli drammatici, anche se da buon mattatore e istrione non fa mancare una certa dose di umorismo, che – lungi dal suscitare la risata – accresce il senso di malinconia e disperazione dei personaggi grazie a uno straniante conflitto di situazioni. Il protagonista Vittorio Barletta rappresenta l’italiano medio dell’epoca, quello del “tengo famiglia”: ossequioso e servile nei confronti del padrone in cui vede ingenuamente un amico, timoroso e con un rapporto coniugale all’insegna della monotonia, è il tipico “borghese piccolo piccolo”, quasi un corrispettivo del più celebre personaggio di Alberto Sordi e che conosce una similare evoluzione/involuzione. La sceneggiatura complessa mette in scena numerosi altri caratteri che non fanno da semplice contorno ma diventano co-protagonisti, diramando il film in varie sotto-trame e rappresentando varie tipologie dell’italiano. A cominciare dalla moglie di Barletta, Marlène Jobert, sostanzialmente uguale a lui nella mediocrità piccolo-borghese ma più sveglia nel conoscere le persone (vani i suoi tentativi di far capire al marito la natura viscida del padrone). Arnoldo Foà interpreta il finanziere Griffo, che sfrutta il povero Barletta (accollandogli anche i suoi loschi traffici) per poi liquidarlo quando avrebbe bisogno di aiuto; Olga Karlatos ne è la moglie insoddisfatta di cui Manfredi si invaghisce, vedendo frustrato il proprio desiderio per il “voto di castità” della donna; una giovane Pamela Villoresi, futura attrice illustra di teatro, ne è invece la figlia ribelle, sempre in contrasto col volere paterno e che seduce il protagonista in una scena dal sapore grottesco; una menzione speciale per il grande Vittorio Mezzogiorno, che – anni prima de La piovra – interpreta con carisma un onesto e coraggioso poliziotto. Sauro Civera non solo fa da svolta narrativa, ma è forse il personaggio più ricco insieme a quello di Manfredi: con la sua dedizione al lavoro (a cui sacrifica la vita) e il suo ruolo di maestro e amico, rappresenta la parte più sana della legge; è lui che inizia alle armi Barletta, è lui che gli regala la prima pistola (il “giocattolo” del titolo), avvertendolo però del pericolo che si corre girando armati. Ma Civera non è altro che l’occasione, perché il cittadino Manfredi ha già deciso che vuole difendersi da solo: la rapina al supermercato è il culmine di una sensazione generale di paura – notevole la sequenza iniziale, montata con ritmo da thriller, in cui l’auto blindata è inseguita da un sospetto gruppo di rapinatori – rappresentazione di un disagio e senso di insicurezza particolarmente diffuso in quegli anni (ma ancora oggi). Barletta rivendica quindi il diritto a difendersi con un’arma propria, non trovando difesa nello Stato: ma una pistola non è un giocattolo (come gli fa notare Mezzogiorno), e forse il protagonista non se ne rende conto, finendo in una spirale di auto-distruzione; prima osannato dall’opinione pubblica e dai media, poi arrestato per “eccesso di legittima difesa” e abbandonato da tutti; numerosi quindi gli spunti di riflessione offerti dal film, che ritrae impietosamente l’Italia e gli italiani dell’epoca e risulta uno fra i nostri migliori film di impegno civile.

Tre sono le sequenze spettacolari da vero film poliziesco, che Montaldo dimostra di saper dirigere come i maestri del genere (si era già fatto le ossa con l’ottimo gangster-movie Gli intoccabili). Dopo il tesissimo incipit che si risolve però in un falso allarme, la rapina al supermercato irrompe con violenza sconvolgendo il ritmo del film: messa in scena con il tipico stile “cinico infame e violento” dei polizieschi italiani, vede i banditi irrompere e scatenare una sanguinosa sparatoria con due poliziotti. La seconda sequenza d’azione è un’autentica lezione di cinema: se la prima giocava su un montaggio veloce e un ritmo frenetico, qui è l’opposto; la sparatoria al ristorante in cui vengono uccisi Civera e un rapinatore è girata interamente al ralenti, con una sospensione temporale e un’enfasi emotiva incredibile, in cui ogni gesto è ripreso nei minimi dettagli, sostenuto dal suono ossessivo di un battito cardiaco e con brano musicale altrettanto teso. Stessa tecnica del ralenti è utilizzata per la resa dei conti sulla ferrovia tra Barletta e i delinquenti (fra cui Mario Brega, inconfondibile villain del cinema italiano): Manfredi, con una freddezza calcolata e imprevedibile, estrae la pistola e stende i tre uomini con precisione chirurgica spezzando loro gambe e braccia.

La trasformazione del personaggio si vede anche nelle tre suddette scene: dall’imbranato ragioniere della rapina (che, con un voluto umorismo, confonde il sangue col pomodoro) al freddo e cinico giustiziere che uccide l’assassino di Civera e rende inoffensivi gli altri tre banditi. Manfredi diventa quindi una sorta di “giustiziere della notte” all’italiana: ma, come spesso accade, il cinema italiano va più in profondità rispetto ai roboanti action-movie americani, mostrandone le deleterie conseguenze. Il ragioniere, da collezionista di orologi, diventa esperto di pistole, che colleziona e studia, fino a impazzire e voler intraprendere una folle lotta contro la società, con un esito drammatico e imprevedibile. Come si diceva, non mancano le scene da commedia amara: vedasi i continui duetti fra Manfredi e Foà, i “fantozziani” bisticci con la moglie, gli imbranati tentativi di seduzione verso la Karlatos e i giochi con la pistola creati ad arte per il vicino guardone (sintomo della follia superomista in cui il personaggio è caduto).

La colonna sonora

Le musiche sono affidate al maestro Ennio Morricone, che si conferma una garanzia anche quando non è ai suoi massimi livelli. Nel Giocattolo non c’è una colonna sonora che resta particolarmente impressa (come spesso accade invece con le sue composizioni), ma una serie di brani variegati che esprimono con efficacia le sensazioni espresse dai vari momenti. Ecco quindi il pezzo del tesissimo incipit, con gli inconfondibili archi stridenti in pieno stile morriconiano, e il brano martellante che si innesta sul suono del battito cardiaco durante la sparatoria al ristorante (anche questo è il genio musicale). A tutto ciò si oppongono melodie struggenti e malinconiche, come quella che accompagna il pianto di Manfredi dopo aver scoperto la malattia della moglie.

Davide Comotti

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