Salire sul palco per scoprire se stessi

Fare teatro è camminare in un luogo quotidianamente percorso e avere la consapevolezza che fino ad allora lo si era guardato distrattamente.

È accorgersi di angoli di strada ombrosi e accoglienti, scoprire prospettive di palazzi e di viali, notare i colori vividi di alberi e siepi, provare disagio e smarrimento nell’attraversare vicoli bui da sempre poco frequentati, avvertire l’imbarazzo del sentirsi esposti allo sguardo curioso degli avventori seduti ai tavoli di un caffè.

 

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Viene naturale utilizzare la figura retorica della metafora nel parlare di teatro, il quale, d’altra parte, è esso stesso una metafora. Non si dice forse che il teatro è metafora della vita. Cioè di una sostituzione e trasposizione di una realtà con un’altra percepita equivalente: dalla realtà della vita alla realtà messa in scena nell’atto teatrale.

Questa operazione che è di tipo simbolico, avviene anche nel particolare del soggetto teatrante, l’attore, il quale attraverso l’interpretazione di un personaggio, nei suoi vissuti e risvolti psicologici, entra in contatto con sé stesso con le risonanza che quegli affetti producono in lui in quanto soggetto tout court.

È per questo motivo che il teatro è da sempre riconosciuto nei suoi effetti, prima ancora che terapeutici, di conoscenza e di espansione di sé.

Nel lavoro psicoanalitico la metafora occupa un posto fondamentale. Lacan dice: “una parola per un’altra, tale è la formula della metafora” precisando però che l’operazione non si esaurisce con questa sostituzione perché la portata della parola sostituita continua ad essere presente e ad agire sotterraneamente nella catena di parole che, a seguito di ciò, si è sviluppata.

Il teatro, quindi, attraverso la dimensione metaforica permette di avvicinarsi in modo autentico a se stessi.

Un bravo attore riesce ad esprimere al meglio le proprie qualità sceniche e interpretative quanto più ha perlustrato la propria interiorità psichica, emotiva, affettiva e relazionale, giungendo, se non proprio ad una conoscenza di sé, operazione fortunatamente mai conclusa, quantomeno ad una maggiore e più profonda confidenza con se stesso.

Una famigliarità anche con quella parte di sé che Jung chiamava l’ombra, parte oscura dalla quale tendiamo a stare lontani evitandone l’incontro. Quella parte che mostra come in ciascun individuo vi siano sentimenti, passioni e desideri nell’ordine dell’egoismo o della violenza. Il vederli, il sentirli in se stessi non significa condividerli o agirli ma riconoscere che in quanto esseri umani anch’essi ci appartengono. Come si spiegherebbe, allora, che uomini di buona educazione, di sani principi morali siano stati capaci, ad esempio durante il nazismo, di compiere atti bestiali? E non è forse vero che i santi hanno lottato nella loro vita contro passioni e desideri che essi definivano demoniaci?

 

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Queste considerazioni hanno implicazioni anche nelle relazioni interpersonali. Infatti, ciò che ci disturba nell’incontro con l’altro è il fatto che egli ci rinvia quelle parti di noi che non amiamo vedere. Solo cominciando ad accettarle serenamente non vivremo più l’altro come negativo o disturbante. Stabilire un rapporto di amicizia con noi stessi è la condizione prima per entrare in amicizia con l’altro. Il teatro aiuta molto in questo lavoro di avvicinamento a se stessi e conseguentemente di accettazione di sé e dell’altro.

Il famoso pensiero socratico “conosci te stesso” perché il sapere è liberazione, viene aggiornato nel teatro in: conosci te stesso se vuoi interpretare un altro. Infatti, ciò che l’attore rappresenta sulla scena non sono altro che parti, tratti, rintracciabili nella propria individualità.

La personalità di ciascuno è articolata in molte sfumature, contraddizioni, opposti, e il tentativo che normalmente si tende a fare è quello di negare a se stessi queste incongruenze, evitando di fatto di vederle e riconoscerle. Tutto ciò al fine di aderire ad un ideale di sé che inevitabilmente risponde ad un ideale dell’Altro.

Ed uno dei compiti della vita è quello di scoprire, nel senso di portare alla luce, prima ancora che agli altri, a se stessi la multiformità del proprio essere. Azione che si traduce nel riconoscimento della propria autenticità che sovente, al fine di conformarsi al desiderio dell’Altro e della sua accettazione, nonché nella ricerca della propria tranquillità, si è negata.

Anche in questo teatro e psicoanalisi si incontrano.

Riconoscere il proprio desiderio, i propri sentimenti e le proprie più profonde sensazioni non è operazione facile, e non necessariamente piacevole ma certamente autentica e liberatoria.

Ed è proprio questo il punto: è spesso preferibile non cercare la propria libertà che, in considerazione della sua impossibilità assoluta, declinerei in autenticità, perché ciò pone il soggetto di fronte alla consapevolezza del proprio esistere e, non di rado, è preferibile voltarsi dall’altra parte, o fingere di non vedere, poiché l’autenticità implica la responsabilità.

Responsabilità nei confronti di se stessi, cioè del proprio desiderio. Ed è questo, tra l’altro, il senso più profondo del lavoro psicoanalitico ed il teatro è mezzo di apertura su questo mondo e sulla responsabilità che ciascuno ha verso se stesso. In fondo non siamo lontani dal senso della parabola evangelica dei Talenti.

Foto: Ezio Ceresoli

Compagnia teatrale:  http://www.leacque.com/

 

Mario Tintori

Psicologo Psicoterapeuta

www.psicologo.bergamo.it

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